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Il caso

Da Ruby a Mion. Quando indagare un testimone è contro lo stato di diritto

Guido Stampanoni Bassi

L'assoluzione degli imputati della sentenza Ruby-ter da parte del tribunale di Milano è dovuta a delle fondamentali regole giudiziarie. Le stesse che andrebbero applicate anche nel caso dell'ex ad di Holding Edizioni nel processo sul crollo del ponte Morandi

Qualche giorno fa sono state depositate le motivazioni della sentenza Ruby-ter, con le quali il tribunale di Milano – con una pronuncia da incorniciare – ha spiegato come l’assoluzione degli imputati non fosse affatto dovuta ad un cavillo, ma a fondamentali regole di civiltà giuridica. La premessa è che se nei confronti di una persona sono emersi indizi di reità – e ciò a prescindere dal fatto che sia indagata – l’autorità giudiziaria non può trattarla come un mero testimone (ossia chi, con obbligo di verità, è chiamato a riferire ciò che è a sua conoscenza), dovendo, al contrario, riconoscerle una serie di garanzie, tra le quali l’avviso della facoltà di non rispondere (diritto al silenzio). Nel caso Ruby, nonostante fossero emersi nei confronti delle imputate plurimi indizi di reità ben prima delle loro dichiarazioni, le stesse erano state esaminate nelle forme previste per i testimoni anziché in quelle previste gli indagati. La questione, lungi dall’essere un cavillo, è di pura sostanza e il tribunale ci ha tenuto a precisarlo in maniera netta: “qui non si discute di un mero sofisma, di una rigidità processuale o di una sottigliezza tecnica priva di contenuti: tutelare il diritto al silenzio significa assicurare l’effettività della garanzia di un principio che innerva l’essenza del sistema processuale e affonda le radici direttamente nel diritto di difesa, costituzionalmente presidiato e pietra d’angolo dell’ordinamento giuridico”.

 

La questione è tornata di attualità dopo un’udienza del processo sul crollo del ponte di Genova, nella quale Gianni Mion, ex ad di Edizioni, ha riferito in aula su delle perplessità sulla tenuta del ponte che sarebbero state manifestate in alcune riunioni risalenti al 2010. Alcune difese degli imputati hanno sollevato la questione, invitando il tribunale a valutare se, alla luce delle dichiarazioni, lo stesso Mion dovesse essere considerato un indagato. A fronte della replica del pm – secondo il quale Mion non era stato indagato perché non ricopriva ruoli in ASPI, motivo per cui doveva ritenersi corretta una sua audizione quale testimone (e, prima, come persona informata sui fatti) – il presidente si è riservato di valutare la questione in seguito. Senza ovviamente entrare nel merito delle dichiarazioni del testimone – su cui le difese degli imputati hanno rilasciato ieri un comunicato con cui ne contestato la attendibilità – il tema giuridico che si è posto è dunque quello relativo al potere, in capo all’autorità giudiziaria, di sindacare la veste con cui determinate dichiarazioni sono state rese. Sul giudice, infatti, ricade il potere-dovere di verificare se il soggetto chiamato a rendere dichiarazioni sia coinvolto o meno nei reati per cui si procede e se il giudice rileva che le veste più appropriata per il dichiarante sia quella di soggetto coinvolto nei fatti (anziché di testimone), questi deve essere considerato indagato a tutti gli effetti (con applicazione delle garanzie di cui si è detto). Del resto, come hanno riconosciuto i giudici nel caso Ruby-ter, la mancata iscrizione del testimone quale indagato non preclude al giudice di valutare successivamente la sua sostanziale qualità di indagato al momento delle dichiarazioni.

  

Guido Stampanoni Bassi (avvocato e direttore della rivista Giurisprudenza Penale)

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