Una famiglia di Liverpool nel 1957 (Picture Post / Getty Images)

Simposi antichi e moderni

Le silenziose tavolate di una volta dove si capiva il senso della giustizia

Sergio Belardinelli

Dove un tempo regnava l'ordine, ora c'è un caos che tradisce l'incomunicabilità fra i commensali. Una virtù che non si impara in nessun libro e che manca tanto in famiglia quanto nel dibattito pubblico

A casa dei miei nonni durante il pranzo e la cena, rigorosamente a mezzogiorno e alle sette e mezza di sera, si stava in silenzio. Poteva succedere che gli adulti si scambiassero qualche parola, ma accadeva sempre di sfuggita e rivolgendo lo sguardo versi noi piccoli, come a dire: “ci sono loro, ne parliamo dopo”. Per il resto si sentiva soltanto il rumore delle stoviglie e ogni tanto la vece di mia nonna che ripartiva il cibo secondo un ordine prestabilito o quella di mio nonno che aveva invece la sovranità assoluta sul vino, un bottiglione da due litri rigorosamente posizionato a portata di mano. Sia per il cibo che per il vino, non era consentito a nessuno dei commensali di dire di volerne ancora. Chi aveva finito la propria porzione, poteva soltanto confidare nella magnanimità di mia nonna nella ripartizione degli eventuali resti, la quale peraltro, specialmente con i nipoti, faceva sempre molta attenzione a non fare parzialità. A tal proposito applicava un rigido criterio di giustizia distributiva, lievemente temperato dall’età dei nipoti, dal loro appetito e qualche rara volta dai loro gusti. A tutti la stessa porzione, con qualche compensazione, più o meno lieve a seconda delle circostanze, condivisa da tutti noi.

 

Diventato ormai nonno anch’io, mi capita spesso di fare confronti tra quelle tavolate e quelle alle quali prendo parte oggi con i miei figli e i miei nipoti. Due mondi del tutto incommensurabili. Tanto la tavola dei miei nonni era ordinata e tanto la mia è caotica. I posti a tavola non sono mai gli stessi per nessuno. Non solo non si sta in silenzio, ma è difficile fare un qualsiasi discorso perché a parlare sono in troppi. Quando ci si riesce, il più delle volte sono i più piccoli a stabilirne l’oggetto. Riguardo infine ai criteri di distribuzione delle vivande, essi non esistono più; l’abbondanza li ha resi superflui; ognuno si prende quello che vuole.

 

Premesso che per una serie di ragioni che qui non intendo prendere in considerazione, non sarei mai disposto a scambiare l’armonia prestabilita che regnava nella casa dei miei nonni col caos che regna in casa mia, curiosamente mi capita spesso di pensare ai pranzi e alle cene della mia infanzia quando sento parlare di giustizia. A tal proposito, ho la sensazione che, un po’ come nelle nostre case, l’abbondanza ne abbia come ristretto l’orizzonte a rigidi criteri di distribuzione quantitativa. A ciascuno secondo quanto ne vuole, oppure, se proprio si deve suddividere qualcosa, tanto a te e tanto a me. Punto. Questo criterio, considerato che si tratta di fare soltanto una divisione aritmetica, ha indubbiamente il vantaggio della semplicità. Se ho cento euro da suddividere tra dieci persone, non ho che da dare dieci euro a testa. Ma la realtà della giustizia è molto più articolata e complessa.

 

Innanzitutto perché in genere le risorse da distribuire sono risorse scarse, in secondo luogo perché, avendo poniamo da suddividere cento euro tra un miliardario e un morto di fame, potrebbe non essere giusto dare cinquanta euro a testa, in terzo luogo perché sono spesso gli stessi beni da distribuire ad essere difficilmente divisibili in parti uguali. Esemplare in proposito l’episodio del re Salomone, il quale, di fronte a due donne che si contendono un bambino, per riconoscere quale delle due è la vera madre decide di dividere il bambino in due. Ciò significa che la giustizia, come ben sapeva Aristotele, senza nulla togliere al suo carattere anche aritmetico, è comunque soprattutto qualcos’altro; è precisamente una virtù. Se si potesse essere giusti soltanto per scienza e vivessimo in un mondo di risorse illimitate, non ce ne sarebbe alcun bisogno. Ma il mondo dove siamo chiamati a essere giusti è assai complicato, abitato com’è da una pluralità di uomini differenti tra loro, che vivono in condizioni differenti e hanno spesso differenti idee di giustizia. Per questo la giustizia richiede esperienza, sensibilità, phronesis avrebbero detto i greci, che è poi soltanto una parola per dire l’attitudine alle compensazioni che dimostrava di possedere mia nonna.

 

Ecco, quando penso al mondo in cui stanno crescendo i miei nipoti, mi domando spesso se avranno mai anch’essi l’opportunità di trascorrere in silenzio qualche scampolo della loro giornata, facendo esperienza concreta di una virtù che non si impara in nessun libro, che ci introduce docilmente alla complessità del mondo e, seppure assimilata in silenzio, è forse la condizione principale di ogni forma di conversazione civile.

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