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L'eterno ritorno

I rimasugli della Trattativa nelle dietrologie su Messina Denaro

Riccardo Lo Verso

La cronaca smonta i fuochi di paglia sul boss latitante in grado di ricattare lo stato. Un aggiornamento dell’antimafia militante che continua a indirizzare l'opinione pubblica: ma è ancora credibile chi parla come in un film hollywoodiano?

“A oggi i Van Gogh sono due, l’altro fu il 29 novembre 2021”: firmato Matteo Messina Denaro. Il riferimento al pittore dei girasoli per qualcuno ha rappresentato l’ultima occasione, il colpo di coda per rinverdire l’epopea malsana del latitante ormai al capolinea dell’arresto. Un artista tormentato, un padrino in fuga, la possibilità di funamboliche connessioni. Che delusione! Altro non erano che le immagini della copertina del quadernetto su cui il capomafia appuntava ogni cosa, comprese le riflessioni esistenziali e le divergenze di vedute con la figlia. Rapporto conflittuale il loro, a giudicare dagli scritti. Anche questo quaderno, e un altro migliaio di pizzini, adesso è in mano ai carabinieri del Ros che hanno arrestato il capomafia il 16 gennaio scorso all’esterno della clinica La Maddalena di Palermo. Luogo di processione, la struttura sanitaria, per i malati di tumore. Si mettono tutti in fila, siano essi cittadini anonimi o pericolosi latitanti, con la stessa speranza di averla vinta o quantomeno di resistere.

 

La cronaca è uno schiaffo al torpore collettivamente indotto articolo dopo articolo, trasmissione dopo trasmissione, libro dopo libro. È venuta fuori la normalità del boss, se davvero normalità può esserci nella vita di chi ha ucciso uomini, donne e bambini e scappava da trent’anni. Scappava, appunto. Le modalità dell’arresto hanno al momento silenziato (qualche rigurgito di complottismo è sempre dietro l’angolo, mai recitare il de profundis) i retroscenisti di professione. Quelli che sanno tutto prima degli altri. Sapevano che Messina Denaro non veniva cercato, che era meglio non stuzzicarlo perché è il depositario dei segreti d’Italia, della chiave dei misteri della Repubblica. Se fosse stato trattato male avrebbe spifferato ogni cosa, minando le fondamenta del paese. Insomma un ricattatore che tiene per il collo da decenni i rappresentanti delle istituzioni. Che poi, a pensarci bene, chi dovrebbero essere costoro? Il tempo fugge via inesorabilmente per tutti, anche per i cattivi. Per ultimo, quando la caccia è finita, si è fatta strada la tesi che Messina Denaro si sia consegnato in cambio di favori, per se e per gli altri. Misure carcerarie più morbide, niente ergastolo ostativo, magari qualche permesso premio nel contesto di un do ut des maleodorante. Altro non è che un aggiornamento della immarcescibile trattativa fra la mafia e lo stato che ha segnato non solo una lunga stagione giudiziaria, andata a sbattere contro i giudicati delle sentenze, ma anche il modo di leggere le cose. O meglio, di indirizzarle.

 

Prendete Salvatore Baiardo, gelataio di Omegna, in Piemonte, ma di origini palermitane, arrestato tre decenni fa per avere favorito la latitanza dei fratelli Graviano di Brancaccio, stragisti della stessa ala corleonese di cui faceva parte Matteo Messina Denaro. Baiardo è stato invitato nei tribunali paralleli delle televisioni ad annunciare che il boss stava male e presto si sarebbe fatto arrestare. A cose fatte è tornato nei talk-show per incassare, tra lo stupore generale, la patente di credibilità per la profezia avveratasi che gli spalancherà le porte di chissà quante altre ospitate. Tralasciando la sua inattendibilità già processualmente certificata, che Messina Denaro fosse malato si scriveva da tempo (dai problemi agli occhi a quelli renali), poi il destino ha voluto che si ammalasse di tumore. Che lo stessero per arrestare si annunciava un giorno sì e l’altro pure. Prima o poi qualcuno doveva pur azzeccare il ripetitivo pronostico. Si è rivisto Gaspare Mutolo, pentito della vecchia mafia, fuori dai giochi da decenni (in caso contrario sarebbe sì gravissimo), a cui l’arresto di Messina Denaro è sembrato “una messinscena, più un appuntamento” perché “nel governo ci sono le persone più buone d’Italia, ma in mezzo a loro c’è sempre qualcuno… la Trattativa stato-mafia è ancora in corso”.

 

Mutolo di fatti investigativi da raccontare non ne ha più. Gli restano le memorie di una stagione cancellata da arresti e condanne, le sofferenze e i sensi di colpa. Così si addentra nella nebbia dei ricordi che a distanza di decenni nessuno può confermare né smentire, come quelli sull’interrogatorio che Mutolo fece nel luglio 1992 in gran segreto, a Roma, con Paolo Borsellino. Il magistrato ricevette una telefonata e dovette precipitarsi dal ministro dell’Interno Nicola Mancino. Lo stesso Mancino tirato dentro il processo sulla Trattativa con l’accusa di avere mentito e totalmente scagionato. La situazione raccontata da Mutolo era parecchio scenografica. Borsellino tornò dall’incontro ed era infuriato. Per calmarsi dovette “fumare due sigarette insieme”. Poi fece una confidenza al pentito che gli stava seduto di fronte. Fuori dalla stanza del ministro c’era Bruno Contrada (ex numero tre del Sisde). Sapeva dell’interrogatorio segretissimo. Un resoconto che finisce nel limbo delle cose impossibili da verificare. L’ipotesi che Messina Denaro si sia consegnato ha la forza delle idee dei terrapiattisti. Il riferimento non è casuale. Lo ha citato, qualche giorno dopo l’arresto del capomafia, Maurizio De Lucia, il procuratore di Palermo che ha coordinato le indagini assieme all’aggiunto Paolo Guido. De Lucia ha paragonato le opinioni, definite “rispettabili” in uno slancio di magnanimità, a quelle “di chi dice che la terra è piatta”. “Io so come lo abbiamo arrestato”, ha aggiunto rispondendo a chi pontifica in televisione, “che non fa indagini da dieci anni e viene a dirci come si fanno”. Prima ne ha parlato a un incontro con gli studenti e poi ha scelto la pomposità della parata dell’inaugurazione dell’anno giudiziario per provare a mettere un argine alle suggestioni.

 

Una lettura più sottile dei fatti, nei giorni successivi al blitz, l’ha fornita Roberto Scarpinato, ex magistrato antimafia e oggi senatore del Movimento 5 Stelle. L’arresto di Messina Denaro inquadrato come “uno scambio di prigionieri”. Il capomafia detenuto “in cambio” della futura scarcerazione di altri pezzi da novanta sepolti all’ergastolo. “Non è che Matteo Messina Denaro non era più il capo – ha detto Scarpinato – ma c’è una struttura che va al di là di Matteo Messina Denaro che dice ‘è chiusa, è finita, questo è il momento in cui tu ti devi fare arrestare’. E anche Matteo Messina denaro deve obbedire”. Quindi una trattativa c’è stata, ma nella nuova versione tutta interna a Cosa nostra all’ombra del “deep state” (lo stato occulto popolato da traditori), volendo usare le parole usate dallo stesso Scarpinato. Il surreale spettacolo della dietrologia degli opinionisti è andato avanti per quasi due mesi, poi si è capito cosa volesse dire il procuratore con la frase “io so come lo abbiamo arrestato”. Lo scorso dicembre i carabinieri del Ros sono andati a casa della sorella di Messina Denaro, Rosalia, per piazzare una microspia nel bagno, divenuto luogo di incontri. Non era la prima e non sarebbe stata neppure l’ultima cimice se la donna non avesse commesso un errore imperdonabile disattendendo il diktat del fratello di distruggere i pizzini dopo averli letti. E invece la più grande delle quattro sorelle dell’ex latitante li conservava o li ricopiava, compreso il diario clinico del fratello con le operazioni e le cure a cui si è sottoposto.

 

Come si è arrivati all’arresto? Chiedevano i cronisti il giorno dell’affollata conferenza stampa nella caserma che ospita la legione carabinieri di Sicilia e che prende il nome dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, a Palermo. L’evasività delle risposte – non era il momento di svelare dettagli – era stata subito tacciata di fregatura e patti sporchi. Ed invece c’era una ragione investigativa: anche la sorella sarebbe stata da lì a poco arrestata. E il covo, perché non è stato subito perquisito?, chiedeva qualcun altro nel tentativo di imbastire il remake del rifugio di Totò Riina. Ed invece i carabinieri ci sono andati subito, così come negli altri immobili riconducibili a Messina Denaro. La verità è che sono stati bravi, e anche fortunati (audentes fortuna iuvat), i carabinieri a trovare nella gamba di una sedia il pizzino che Rosalia conservava gelosamente sullo stato di salute del boss. Consultando le banche dati ministeriali che raccolgono i codici dei malati di tumore si è arrivati alla cattura. Non c’è trucco e non c’è inganno anche se risulta difficile accettarlo, specie a coloro che hanno costruito l’epopea del latitante. Leader di una holding che vale quattro miliardi di euro. Capo di un impero economico che va dal fotovoltaico alle imprese agricole. Boss giramondo che se la spassava grazie al patto con servitori infedeli di uno stato che fingeva di cercarlo e invece lui aveva in tasca il salvacondotto del ricatto. Non sono bastati i mille arresti, compresi fratelli, sorelle e nipoti. Anzi il fatto che all’appello mancasse solo lui alimentava le dietrologie. La realtà è ben diversa. Non hanno smesso di cercarlo. Al contrario a un certo punto c’è stato un controproducente (involontario) accerchiamento ed è stato necessario regolare il traffico degli investigatori per evitare che si pestassero i piedi. Le piste più concrete andavano salvaguardate.

 

Messina Denaro era un boss braccato, tanto da sentirsi – così scriveva – “perseguitato dallo stato”. Sbraitava quando un’altra sorella, Patrizia, e il nipote Francesco Guttadauro, nel 2013, finirono in carcere. Vittime, anche loro, di uno stato “prima piemontese e poi romano” che ha costruito la bugia che “noi siamo il male e loro il bene”. “Ad ogni nuovo arresto – scriveva ancora il padrino – si allarga l’albo degli uomini e donne che soffrono per questa terra”. Un giorno però “la storia ci restituirà quello che ci hanno tolto in vita”. No, non parla così un uomo che gode della protezione di stato. E non parla così neppure la sorella, suo alter ego. “Fanno schifo, ti insultano, dopo avere arrestato persone a te care, lo fanno apposta”, rincarava la dose Rosalia a cui il fratello smistava ordini e indicazioni su come evitare di essere scoperti. Dagli scritti di Messina Denaro viene fuori la sua attenzione maniacale per proteggere le sue comunicazioni. Dal disegnino con le indicazioni su come appendere uno straccio per indicare un luogo non sicuro da cui girare alla larga ai nomi in codice. E ci sarà stata pure qualche talpa in divisa a fornirgli le dritte giuste per non essere intercettato, ma ciò non giustifica il tentativo di sminuire o, peggio, denigrare il lavoro di chi la divisa la indossa con onore e sacrificio.

 

Nel frattempo i Messina Denaro cercavano soldi. Il titolare di un impero miliardario aveva bisogno di immediata liquidità e così imponeva, probabilmente a un imprenditore, di dargli 40 mila euro per rimpinguare il fondo cassa. Aveva avuto delle spese impreviste. Anche questo è un segno di normalità. Come riusciva a fare circolare i pizzini? Quando i tempi saranno maturi si capirà anche il funzionamento della rete di trasmissione delle comunicazioni e cadrà, c’è da starne certi, pure il tema che giorno dopo giorno sta montando. Qualcuno al momento lo sussurra: com’è possibile che veicolasse migliaia di pizzini a casa sua e nessuno se ne sia mai accorto? Le risposte investigative arriveranno. Un’altra domanda, piuttosto, resterà inevasa: è ancora credibile l’antimafia che ha dipinto la mafia come un film hollywoodiano? L’antimafia che mette in guardia dal “regalino” che stanno per fare ai mafiosi che hanno tradito e fatto arrestare Messina Denaro (c’è anche questa teoria in circolazione): salterà il 41-bis. E allora esulteranno i Bagarella, i Calò, i Graviano e tutti gli altri 238 boss siciliani sepolti al carcere duro dove sono rimasti, fino all’ultimo respiro, capimafia come Totò Riina e Bernardo Provenzano.

 

Ecco perché non stupiscono il proliferare dei Baiardo di turno e la capacità di fare presa che hanno le idee strampalate. Salvatore Borsellino, ad esempio, ha rilanciato la congettura che esistano più copie dell’agenda rossa trafugata al fratello. Sono finite in mano ai servizi segreti e ai capimafia. Magari ne possiede un multiplo lo stesso Matteo Messina per fare rispettare il patto che lo stragista arrestato ha siglato con lo stato. Della serie: si arrende, ma… Nulla c’è dopo il “ma”. La cronaca ha riportato nell’alveo della “normalità” la vita del capomafia. La realtà cancella il mito che dell’ultimo dei padrini latitanti è stato costruito, a cominciare dalla protezione di stato di cui avrebbe goduto, malgrado i retroscenisti della mafia da cinematografo gorgheggino nei salotti televisivi e si emozionino quando un Van Gogh spunta nella vita “normale” del sanguinario stragista.