Un “romanzo” senza prove, fondato su un’accusa “lunare, incomprensibile” e “radicalmente insostenibile”. Sono solo alcune delle espressioni utilizzate dai giudici della corte d’appello di Perugia nelle motivazioni della sentenza con cui, lo scorso 9 giugno, hanno assolto con formula piena gli imputati accusati di presunte irregolarità nell’espulsione di Alma Shalabayeva e di sua figlia Alua, avvenuta nel 2013. Gli imputati (che in primo grado erano stati condannati) erano l’allora capo dell’ufficio immigrazione della questura di Roma, Maurizio Improta, i funzionari Vincenzo Tramma e Stefano Leoni, il capo della Squadra Mobile, Renato Cortese (il super poliziotto artefice della cattura del boss di Cosa nostra, Bernardo Provenzano), i funzionari dello stesso ufficio, Luca Armeni e Francesco Stampacchia, e il giudice di pace Stefania Lavore. Tra le accuse formulate dai pm nei confronti dei poliziotti vi era anche quella di aver compiuto un sequestro di persona, un “rapimento di Stato”.
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