Foto di Stefano Porta, via Ansa 

giudici e carabinieri

C'è l'antimafia che arresta i boss. E poi c'è quella farlocca della Saguto

Giuseppe Sottile

Ha incarnato per anni l'onnipotenza e l'arbitrio delle toghe alle quali non si poteva contestare nulla. Carriere inarrestabili, applaudite dai complottisti e santoni della tv. A sei mesi dalla sentenza di condanna, la pubblicazione delle motivazioni

Certo, sarà anche stato un capriccio del destino, ma nessuno avrebbe potuto immaginare che mentre i carabinieri del Ros catturavano Matteo Messina Denaro e assestavano un altro colpo mortale alla mafia, i giudici di Caltanissetta scrivevano parole di fuoco contro l’antimafia degli abusi e degli affari, delle conventicole e delle consorterie, delle finzioni e dei giochi proibiti dentro e fuori i palazzi di giustizia. Ricordate Silvana Saguto, l’ex presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo? Per molti anni – da magistrato apparentemente inappuntabile e teatralmente sotto una scorta – aveva traccheggiato con i beni sequestrati ai mafiosi in base a una legge, dettata dall’emergenza, secondo la quale per arrivare alla confisca di aziende, conti correnti e patrimoni immobiliari non servono prove ma semplici indizi.

 

A volte basta solo un sospetto. A decidere era lei, Silvana Saguto. E quando su un imprenditore o su un prestanome scendeva la sentenza di contiguità con Cosa nostra, i beni passavano automaticamente sotto amministrazione giudiziaria. Ed era lì che scattava la consorteria; il girotondo cinico e spietato dei consulenti e degli amministratori nominati dal tribunale. 

 

Di fatto la Saguto diventava la proprietaria assoluta di ogni patrimonio finito sotto la sua giurisdizione. E lei non aveva altro scopo se non quello di ricavare per sé e per i suoi sodali il massimo guadagno. Spolpava le aziende fino all’ultimo osso. E lo faceva mentre, con l’alta uniforme dell’antimafia, partecipava alle cerimonie in memoria di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, gli eroi massacrati dal tritolo di Capaci e via D’Amelio; o andava nelle scuole a incoraggiare i ragazzi a schierarsi con lo stato e mai con i boss; o diceva la sua nei dibattiti e rintuzzava chiunque si azzardasse a contrastare la teoria del sospetto come anticamera della verità.

 

Le è andata bene per parecchi anni: l’omertà non copre solo i boss. Poi, per un disguido, il verbale di una intercettazione telefonica, nel quale si parlava di come spartire il bottino, finì alla procura di Caltanissetta e non nelle stanze discrete del Palazzo di Giustizia di Palermo. E lì si squarciò il primo velo. La Guardia di Finanza cominciò a setacciare nomine e bilanci delle aziende e aprì il sipario su una mastodontica rete di corruzione, di connivenze, di complicità.

 

Roba da fare impallidire le più callide cupole della mafia. C’era l’avvocato che presentava alle aziende sotto tutela del tribunale parcelle milionarie e poi allungava qualcosa alla riverita e antimafiosissima Saguto; oppure prendeva come consulente, ovviamente pagato a peso d’oro, il marito della medesima. Si scoprì, insomma, un mondo viscido e limaccioso; un reliquiario di nefandezze, di ricatti e favori. Persino il professore dell’università chiamato ad aiutare il figlio per la tesi di laurea, trovava un posto nell’arcipelago fantasma delle aziende sequestrate. E così la potentissima mamma non scuciva un solo euro dal portafoglio.

 

Dopo anni di indagini, perizie e accertamenti i giudici di Caltanissetta, bisogna riconoscerlo, hanno sfatato il mito del cane non mangia cane e non hanno avuto nessuna clemenza. A luglio la Corte d’Appello ha condannato l’ex presidente delle misure di prevenzione a otto anni e dieci mesi di reclusione, quattro mesi in più rispetto alla sentenza di primo grado. E ieri, a tre giorni dal clamoroso arresto di Matteo Messina Denaro, il relatore ha pubblicato, a nome del collegio giudicante, le motivazioni della sentenza. 

 

Roba da fare tremare i polsi. Silvana Saguto ha incarnato per molti anni, a Palermo, l’onnipotenza e l’arbitrio di quelle toghe alle quali non si poteva contestare nulla, perché depositarie di verità e santità. Guai per chi tentava di fermarle o di riportarle alla realtà. Erano intoccabili. La Saguto è scivolata sulla propria avidità ed è finita nell’inferno giudiziario, lo stesso inferno nel quale aveva trascinato tanti malacarne, ma anche non pochi innocenti. Altri hanno invece utilizzato i pennacchi dell’antimafia per costruire processi improbabili, inchieste fantasmagoriche, teoremi da mille e una notte. E soprattutto carriere inarrestabili, puntualmente accompagnate dagli applausi dei pataccari, dei complottisti e dei santoni della tv. La Saguto è precipitata all’inferno, loro se ne stanno in paradiso.

Di più su questi argomenti:
  • Giuseppe Sottile
  • Giuseppe Sottile ha lavorato per 23 anni a Palermo. Prima a “L’Ora” di Vittorio Nisticò, per il quale ha condotto numerose inchieste sulle guerre di mafia, e poi al “Giornale di Sicilia”, del quale è stato capocronista e vicedirettore. Dopo undici anni vissuti intensamente a Milano, – è stato caporedattore del “Giorno” e di “Studio Aperto” – è approdato al “Foglio” di Giuliano Ferrara. E lì è rimasto per curare l’inserto culturale del sabato. Per Einaudi ha scritto anche un romanzo, “Nostra signora della Necessità”, pubblicato nel 2006, dove il racconto di Palermo e del suo respiro marcio diventa la rappresentazione teatrale di vite scellerate e morti ammazzati, di intrighi e tradimenti, di tragedie e sceneggiate. Un palcoscenico di evanescenze, sul quale si muovono indifferentemente boss di Cosa nostra e picciotti di malavita, nobili decaduti e borghesi lucidati a festa, cronisti di grandi fervori e teatranti di grandi illusioni. Tutti alle prese con i misteri e i piaceri di una città lussuriosa, senza certezze e senza misericordia.