Foto di Alberto Lo Bianco, via LaPresse 

Il commento

Il day after dell'arresto di Messina Denaro è un manifesto dell'Italia complottista e pataccara

Claudio Cerasa

L'osceno storytelling multimediale, fatto di articoli di giornale, talk-show, in cui si mette in scena la repubblica della gogna. Così, tra verità indicibili e teoremi da bar sport, si manifesta l'antimafia della chiacchiera

C’è sempre una realtà alternativa su cui scommettere, c’è sempre una zona d’ombra su cui concentrarsi, c’è sempre una verità indicibile su cui puntare, c’è sempre un mistero su cui investire, c’è sempre una menzogna da smascherare. E anche ieri, nel day after dell’arresto di Matteo Messina Denaro, l’atteggiamento di buona parte della stampa italiana è stato quello di sempre: scommettere sul complottismo giudiziario, scommettere sul retroscenismo processuale, scommettere sulle patacche mediatiche.

 

E dunque, nel giorno dell’arresto di uno degli ultimi padrini, Matteo Messina Denaro, ciò che conta non è l’ennesimo colpo dello stato contro la mafia, non conta quel che sappiamo, ma conta quello che non sappiamo. Conta il mistero della latitanza. Conta il mistero dell’arresto. Conta il mistero del pentito farlocco, Salvatore Baiardo, già ritenuto non attendibile come testimone dalla procura di Firenze, che avrebbe anticipato la notizia dell’arresto. Non conta la scena, conta il retroscena, contano i processi che si fanno sui giornali non nelle aule del tribunale, e contano i retroscena perché in questo limbo tutte le verità indimostrabili, tutto il chiacchiericcio come direbbe Papa Francesco, diventano verosimili e ogni fregnaccia può essere spacciata come verità alternativa, attingendo, come ripete spesso il professor Giovanni Fiandaca su questo giornale, a un osceno storytelling multimediale, fatto di articoli di giornale, talk-show, libri di magistrati a due mani, di magistrati e giornalisti a quattro mani, pièce teatrali, film il cui scopo principale non è sostenere lo stato nella sua lotta contro il crimine ma è supportare un processo giudiziario che essendo basato più sui teoremi che sui fatti ha un’impostazione giuridica troppo debole e un’impalcatura probatoria troppo fragile per resistere alla prova dei fatti.

 

E dunque il circo mediatico giudiziario, anche oggi, anzi oggi più che mai, per non perdere il suo core business ha bisogno di investire sulla fuffa. Ha bisogno di investire sulla Trattativa stato-mafia, nonostante le ripetute assoluzioni nelle inchieste sulla Trattativa stato-mafia (dal caso Mori al caso Mannino per non parlare dei sospetti infamanti lanciati su Conso, sul presidente Napolitano e su quel galantuomo del magistrato suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio, tragicamente morto dopo essere stato infamato dal circo mediatico-giudiziario).

 

Ha bisogno di trovare nuovi testimoni di giustizia portatori di verità alternative, nonostante le numerose sentenze sfavorevoli contro i pataccari alla Massimo Ciancimino. Ha bisogno di trovare magistrati disposti a usare la giustizia non per far rispettare la legge ma per riscrivere la storia, usando le leve del codice morale al posto degli ingranaggi del codice penale. Ha bisogno di trovare giornalisti complici desiderosi di far vivere le verità mediatiche sulle verità giudiziarie, dimostrando come sostiene il professor Giovanni Fiandaca, quanto la relazione gravemente patologica su cui bisognerebbe concentrarsi oggi, quando si parla di giustizia, è la relazione incestuosa tra buona parte dei media e gli uffici di procura.

 

Relazione che paradossalmente emerge con chiarezza ogni volta che le tesi dei complottisti vengono smentite dai fatti perché è proprio in quelle occasioni che devi urlare di più, che devi concentrarti sulla creazione di verità alternative, che devi insistere sulla tua idea, che devi portare avanti, dice Fiandaca, “un bombardamento informativo continuo e drammatizzante, tendente ad assecondare come verità assodata ipotesi accusatorie ardite e basate (tanto più all’inizio) su teoremi storico-politici preconcetti, affondanti le radici in ‘precomprensioni’ soggettive e – purtroppo – costruiti anche in vista del perseguimento di impropri obiettivi lato sensu carrieristici”.

 

È un paradosso questo così come è un paradosso di questa storia il fatto che di fronte a ogni atto eclatante messo in campo dallo stato, come l’arresto di un mafioso importante, il circo mediatico-giudiziario abbia come propri obiettivi gli stessi politici che hanno contribuito, insieme a molti altri, a mettere in campo strategie efficaci nella lotta contro la mafia. E così, come è successo ieri, si costruiscono altre verità alternative, come il desiderio della politica di sottrarre strumenti preziosi nella lotta alla mafia come le intercettazioni.

 

Nessuno ovviamente, neppure tra i più feroci garantisti, sostiene che sia necessario mettere mano alle intercettazioni per i fatti di mafia, ma l’obiettivo del carrozzone mediatico è quello di confondere le acque ed è quello di allargare l’inquadratura sostenendo un’altra verità: le intercettazioni, si dice, sono tutte importanti, sempre, a prescindere dai reati, e chi vuole intervenire su questo fronte, anche se il fronte su cui si vuole intervenire non ha niente a che fare con la lotta alla mafia, si sta preparando a fare un regalo alla mafia.

 

È falso, naturalmente, ma poco importa, perché per camuffare la realtà, per curvarla a proprio piacimento, per far vivere il processo mediatico su quello giudiziario, per continuare a dire, come fa da mesi il senatore Scarpinato e come ha iniziato a fare Roberto Saviano che il governo Meloni è inquinato dalle passate collusioni tra la destra fascista e la mafia, per fare tutto questo i professionisti dell’antimafia della chiacchiera hanno bisogno di avere tra le proprie mani il maggior numero di strumenti utili a tenere in piedi la repubblica della gogna, la repubblica del chiacchiericcio, la repubblica delle allusioni, l’unica all’interno della quale è possibile dare un futuro al bar sport giudiziario.

 

Dove, anche di fronte all’arresto di un grande boss mafioso, ciò che conta non è l’azione dello stato ma è l’evocazione delle realtà alternative, delle zone d’ombra, delle verità indicibili, dell’uso della fuffa complottista come arma per difendersi da un problema chiamato realtà. 

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.