Foto di Alessandro Di Meo, via Ansa 

Un libro

L'inganno del sistema dell'antimafia che è diventato eccezione democratica

Alessandro Barbano

Il paradosso della giustizia che si è trasformata in una macchina del dolore ingiustificabile. Il muro della menzogna di una legislazione speciale che tutti ci invidiano ma che, stranamente, nessuno imita

Raccontare la giustizia da dentro, con gli occhi di fuori. Vuol dire riconnettere la coerenza delle sue condanne, o piuttosto delle sue confische, alla realtà. E scoprire, per esempio, che Riccardo Greco, l’imprenditore di Gela che denunciò i mafiosi a cui pagava il pizzo da anni, e che per anni fu perseguitato dallo stato, non aveva altra scelta che quella di togliersi la vita, per sottrarre la sua stessa vita, e quella dei suoi famigliari, alla ferocia kafkiana di un processo capace di inseguirlo per ogni dove. E per ogni tempo. Con “L’inganno”, in uscita stamane in libreria, voglio spiegare il paradosso civile di una giustizia trasformatasi in una potente macchina del dolore non giustificato e non giustificabile.

 

Ho due obiettivi: confutare l’idea che la crisi della giustizia si esaurisca nel rapporto tra la magistratura e la politica, e quindi si risolva, come pure si dice in questi giorni, modificando il reato di abuso d’ufficio o piuttosto abolendo la legge Severino; e dimostrare invece che tutto origina dallo sconfinamento dell’intero sistema nell’eccezione. Dove ciò che, visto da fuori, sarebbe “arbitrio”, “abuso” e “assurdo”, qui è legittimato da una logica dell’emergenza che prevale su ogni altra ragione. È il diritto dei cattivi, introdotto “dopo l’Unità d’Italia per combattere i briganti, usato a piene mani dal fascismo per perseguitare i dissidenti, ignorato dai repubblicani” e riportato in auge dai moderni paladini della giustizia. È l’antimafia, un universo che fa della deroga la regola, e dell’emergenza permanente l’altare sul quale sacrificare la libertà in nome della lotta al crimine. Un universo fatto di leggi speciali. Di sentenze che anticipano leggi e poi diventano leggi. Di pene che aumentano a dispetto del diminuire dei reati. Di procure che hanno accresciuto il loro potere fino ad assumere un ruolo politico e ad assegnarsi il compito di bonificare la democrazia. Di confische e sequestri con cui lo stato espropria enormi patrimoni privati a cittadini spesso mai processati o, addirittura, assolti. Di imprenditori interdetti nella loro attività in nome di un sospetto, che si diffonde per contagio, come un virus. Di prefetti, amministratori giudiziari e associazioni di volontariato, la cui funzione o il cui profitto dipendono, a vario titolo, dalla crescita continua del sistema stesso. E, infine, di una retorica che accompagna l’avanzare dell’antimafia nella democrazia.

 

Mi chiedo se questa enorme sovrastruttura fosse indispensabile per sconfiggere la mafia, se e in che misura ha adempiuto al suo compito, perché è cresciuta oltre ogni previsione, qual è oggi la sua funzione e quali effetti collaterali produce per la società, chi la promuove e perché, che rapporto ha con la crisi della giustizia italiana e quali sono i vantaggi, o piuttosto gli abusi, i lutti e l’inquinamento civile perpetrati fuori da ogni autentico controllo di legalità e di merito. E da ultimo quali sono i rischi di una sua ulteriore espansione in Italia, dove sempre più spesso con i rimedi dell’antimafia si affronta e si reprime ciò che mafia non è.
Ma più di tutto mi interessa mettere a confronto la coerenza logica di dentro con quella di fuori, e dimostrare il divorzio insanabile che si è prodotto tra la giustizia e la vita. Nella prima si può allo stesso tempo assolvere un cittadino perché il fatto non sussiste, e confiscargli tutti i beni, l’azienda, i conti correnti, la casa, le auto e perfino i regali ricevuti dai figli per la prima comunione. Si può fare e dire che le due azioni, assolvere e confiscare, sono possibili, compatibili, coerenti e, in certi casi, consequenziali. Nella vita l’idea di un’azione così violenta e così afflittiva dello stato suona invece come la più atroce delle sopraffazioni. Se tra la logica della giustizia e quella della vita si è aperto un cratere così ampio, vuol dire che la prima non è più funzione della seconda, ma esiste per se stessa.

 

C’è un disegno di potere, visibile, che si traduce nell’idea di mettere la società sotto tutela, grazie a una delega che la magistratura ha ricevuto dallo stato e che ha la genesi nella lotta all’emergenza mafiosa. Se ne parla e se ne discute da anni, ma questo disegno non esaurisce e non spiega da solo il deragliamento della giustizia. C’è di più. C’è un progetto ideologico di matrice rivoluzionaria, che si assegna il compito di redistribuire la ricchezza, perseguendo quella che si ritiene prodotta ingiustamente. L’obiettivo di questa crociata sono i beni illeciti. I colpevoli sono tali in quanto possessori di patrimoni che si presumono acquisiti ingiustamente, quindi non solo gli autori di reati, ma anche i terzi coinvolti nella proiezione della pericolosità dei beni, e perfino le vittime della mafia, come gli imprenditori che pagano il pizzo. La qualificazione della colpevolezza sfuma nell’idea che chiunque si trovi, per qualunque ragione, ad aver beneficiato di un ingiustificato possesso di ricchezza debba risponderne penalmente. Nella giustizia del riscatto sociale non esistono più i colpevoli, in quanto autori del fatto, ma piuttosto i coinvolti. Per questo mafiosi e corruttori stanno sullo stesso piano, in quanto beneficiari di ricchezze ingiuste. La loro responsabilità non è verso lo stato o verso la comunità, e neanche verso le vittime dei reati commessi, ma prima di tutto verso la storia.

 

Questo paradigma ha una serie di conseguenze per la giustizia. La più grave è una torsione illiberale dell’azione penale, per cui nel suo radar il reo sostituisce il reato, il sospetto la prova, il risultato le garanzie, la morale il diritto. Di questa sostituzione si coglie un’eco nel rapporto tra il diritto penale ordinario e il diritto speciale dell’antimafia. Non a caso il primo pone il limite a premessa della potestà punitiva: “Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge”, recita l’articolo 1 del Codice penale. Il secondo invece non assegna vincoli alla volontà. “I provvedimenti del presente capo si applicano a coloro che debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi”, recita l’articolo 1 del Codice delle misure di prevenzione. Dove prima era il limite, ora c’è l’obiettivo. Il programma culturale moderno del diritto penale parte dalla protezione dell’innocente. Quello delle misure di prevenzione, all’esatto opposto, parte dalla definizione del bersaglio della potestà punitiva.

 

Nel racconto de “L’inganno”, l’antimafia mostra la sua evoluzione in una concrezione insieme ideologica, politica, burocratica e affaristica, protetta da un muro di cinta e da un fossato, come nella tradizione di ogni architettura di potere feudale. Il muro è la menzogna di una legislazione speciale che tutti i paesi del mondo vorrebbero imitare. Nelle pagine di questo libro ho provato a scavalcarlo, dando una risposta alla seguente domanda: perché, se tutti ci invidiano i rimedi delle norme eccezionali, nessuno li adotta? Il fossato è la gogna in cui rischia di cadere chiunque osi criticare il sistema, da Leonardo Sciascia ai giorni nostri.
Non a caso, nell’anno di gestazione del libro, mi sono imbattuto in consigli per così dire scoraggianti, del tipo “ma chi te lo fa fare”, o piuttosto semplicemente in apprezzamenti che, a rigor di logica, risultano immotivati. Come quelli che fanno dire a taluno: “Che coraggio hai avuto a scrivere un libro così”. Ma coraggioso sarebbe raccontare una guerra o, al limite, smascherare un’organizzazione criminale, sfidare per esempio la mafia. Perché dovrebbe essere coraggioso, invece, sfidare l’antimafia, cioè criticare un apparato di contrasto pubblico e legale, fondato su leggi, istituzioni e autorità legittimate? Senza alcun autocompiacimento rilevo che una buona parte delle persone che, per motivi diversi, hanno avuto l’occasione di leggere le bozze de “L’inganno”, mi hanno espresso questo pensiero. Credo che anche in questa percezione diffusa ci sia la prova di uno slittamento civile che coincide con un’anomalia della nostra democrazia. Su cui riflettere.

 

“L’Inganno - Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene”, edito da Marsilio, sarà presentato con l’autore mercoledì 30 novembre a Milano, ore 18.30, al Centro internazionale Brera in via Formentini 10, con Maria Brucale, Giovanna di Rosa, Mauro Magatti, Vinicio Nardo e Venanzio Postiglione. A Roma la presentazione avrà luogo giovedì 1 dicembre all’Auditorium Parco della Musica, teatro studio, alle ore 18: interverranno Giuliano Amato, Giovanni Fiandaca, Giovanni Melillo e Paolo Mieli, coordinerà il dibattito Monica Maggioni.

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