Giovanni Malagò (LaPresse)

editoriali

Malagò vittima della gogna

Redazione

Il fango di Rep. e l’indagine archiviata sui diritti tv: strane coincidenze

Lo scorso 17 maggio, su richiesta della procura di Milano, il gip milanese Chiara Valori ha archiviato l’inchiesta incentrata sulla presunta corruzione avvenuta per l’aggiudicazione dei diritti televisivi di calcio per il triennio 2018-2021, e che vedeva tra gli indagati anche il presidente del Coni, Giovanni Malagò.

 

In un paese normale, giornali e televisioni avrebbero riportato questa notizia, magari citando anche i nomi degli altri indagati, così da restituire loro l’onorabilità macchiata da accuse poi rivelatesi infondate (tra i reati che venivano contestati, oltre alla corruzione tra privati, anche il falso materiale, il riciclaggio e la rivelazione di segreto): Gaetano Miccichè, ex presidente della Lega calcio di seria A, Andrea Zappia, ex manager di Sky, il broker Massimo Bochicchio, morto in un incidente di moto il 19 giugno scorso, il produttore tv Giampaolo Letta e l’allora presidente dei revisori della Lega calcio Giovanni Barbara.

 

Ciò che è accaduto, invece, è che il giorno stesso in cui questa notizia veniva resa nota (strano, no?), il quotidiano La Repubblica ha pubblicato un articolo contenente una parte della montagna di intercettazioni telefoniche realizzate dalla procura nell’ambito dell’inchiesta, contenenti anche giudizi personali espressi da Malagò nei confronti dei presidenti di vari club di serie A, come Enrico Preziosi e Claudio Lotito, e di dirigenti di Juventus e Roma.

  

A colpire non è soltanto la particolare coincidenza tra la pubblicazione dell’articolo e la notizia dell’archiviazione dell’indagine, quanto la decisione stessa dei pubblici ministeri di allegare una valanga di intercettazioni telefoniche dal contenuto penalmente irrilevante a un provvedimento giudiziario con cui, per di più, si richiedeva l’archiviazione dell’indagine.

 

Il vero scandalo non sono le parole espresse in privato da Malagò, ma l’idea diffusa tra i magistrati che le intercettazioni costituiscano prove e non, come dispone il codice di procedura penale, soltanto mezzi di ricerca di prove. Detta in altri termini, l’ignoranza sul funzionamento della giustizia.