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Il femminicidio di Bologna e l'idea rimossa dell'imprevedibilità

Ermes Antonucci

La procura costretta a difendersi dalle accuse di malagiustizia, ma dalla denuncia della donna poi uccisa dall'ex fidanzato non emergeva il rischio concreto di violenza

La vicenda di Alessandra Matteuzzi, la donna uccisa a martellate dall’ex fidanzato (Giovanni Padovani) martedì scorso a Bologna, ha generato una scia infinita di comprensibile indignazione, ma anche di clamorosi paradossi. In Italia, dove i magistrati fanno qualsiasi cosa senza colpo ferire (sono 30mila le persone indennizzate dal 1991 per essere state ingiustamente private della libertà personale), l’unico caso in cui le toghe vengono criticate è per non aver agito prima del crimine. In altre parole, la cultura imperante del giustizialismo ha portato alla rimozione nel pensiero dell’opinione pubblica dell’idea dell’imprevedibilità: non possono esistere fenomeni naturali con effetti catastrofici non prevedibili (si pensi al terremoto in Abruzzo del 2009 e agli scienziati messi sotto processo e persino condannati, prima di essere assolti), non possono esistere incidenti non prevedibili, non possono esistere morti non prevedibili (si pensi ai dirigenti delle Rsa messi sotto processo e poi prosciolti per i decessi di molti pazienti anziani durante la pandemia di Covid-19), non possono esistere omicidi non prevedibili. Nell’orribile caso bolognese, i soggetti già individuati collettivamente come responsabili sono i pubblici ministeri, che non sarebbero intervenuti in tempo per evitare l’assassinio della donna. Come? Arrestando preventivamente l’ex fidanzato poi resosi autore dell’omicidio.

 

In seguito all’ondata di polemiche, la procura di Bologna ha fatto sapere che non c’è stata alcuna sottovalutazione della denuncia presentata dalla donna. La denuncia era stata ricevuta a fine luglio, il primo agosto era stato immediatamente aperto il fascicolo e subito erano state delegate le indagini, seguendo la procedura ad hoc prevista dal “Codice rosso”. Il punto, ha spiegato il procuratore capo bolognese, Giuseppe Amato, è che dalla denuncia della vittima “non emergevano situazioni di rischio concreto di violenza, era piuttosto la tipica condotta di stalkeraggio molesto”.

 

In un’intervista al Corriere della Sera, Amato ha ribadito: “Noi abbiamo fatto tutto quello che si poteva fare. L’episodio che poi si è verificato è stato qualcosa di diverso e imprevedibile rispetto al contenuto della denuncia che, ripeto, rappresentava episodi di molestie, spesso via social. Non di violenza”. Di conseguenza, ha spiegato il procuratore, non ci sarebbero stati gli estremi per chiedere l’adozione di un divieto di avvicinamento: “La denuncia era per fatti di molestie da riscontrare. I processi non si fanno sul sentito dire o solo sulle denunce. Non c’era la rappresentazione di una possibile violenza. Il fatto che si è verificato è totalmente sganciato dal fatto denunciato”. “Se vogliamo fare polemica la facciamo – ha aggiunto – Poi il giorno che un arrestato viene assolto comincia la polemica di segno opposto. Molti parlano solo, ma noi dobbiamo cercare i riscontri. Se poi nelle more si fossero verificati fatti pericolosi allora era la polizia giudiziaria che doveva intervenire. Molti soloni dimenticano che i giudizi vanno rapportati alla situazione ex ante. Dopo un omicidio sono tutti bravi a fare i professori”.

 

A escludere violenze fisiche, in realtà, è stato anche lo stesso avvocato Giampiero Barile, a cui la donna si era rivolta per capire a che punto fosse la denuncia: “Glielo chiesi direttamente: lei mi negò di aver mai subito maltrattamenti. Le molestie di Padovani erano più subdole. La controllava sui social, violava i suoi account, si intrometteva nel suo lavoro. E poi la situazione è precipitata in un attimo”.

 

Difficilmente per questi comportamenti la procura avrebbe potuto chiedere al giudice l’adozione di provvedimenti restrittivi (i due, peraltro, intrattenevano un rapporto a distanza, perché lui faceva il calciatore in Sicilia).

 

Insomma, come ha sottolineato Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione camere penali, “se una donna denuncia atti persecutori mai connotate da indici apprezzabili di violenza fisica o almeno di minaccia alla integrità fisica della vittima secondo la stessa narrazione di quest’ultima, è del tutto ovvio che la reazione della macchina giudiziaria sia proporzionata alla natura delle condotte denunziate”. Anche perché “immaginare che per ciascuna delle migliaia di denunce per stalking possa seguire una reazione del sistema giudiziario idoneo a prevenire esiti omicidiari (per fortuna percentualmente marginali, come è ovvio) è semplicemente una insensata illusione”. Saranno comunque gli ispettori inviati dalla ministra della Giustizia a Bologna a verificare se l’operato dei magistrati sia stato del tutto corretto.

 

Nel frattempo, la senatrice Giulia Bongiorno (candidata per la Lega e aspirante ministra della Giustizia), pur non conoscendo i termini della vicenda, ha parlato di “mancata applicazione del Codice rosso” e ha dettato la ricetta per contrastare le forme di persecuzione contro le donne: “Si fa un uso eccessivo del divieto di avvicinamento quando invece ci vorrebbe il carcere”. Ancora più in là si è spinto il procuratore di Tivoli, Francesco Menditto, che ha proposto di “trattare gli stalker come i mafiosi”.

 

C’è chi sogna l’arresto automatico in seguito a ogni denuncia: la morte dello stato di diritto.