Fabio De Pasquale (Foto Ansa)

l'analisi

Caso Eni-Nigeria, tutti assolti. Se c'è un reato, il reato è l'inchiesta

Luciano Capone

Assoluzione senza appello per tutti gli imputati per l'acquisto del giacimento Opl-245 e flop senza appello per la procura di Milano. Non c'è mai stata alcuna corruzione, ma tante anomalie nell'inchiesta di De Pasquale ora imputato a Brescia. Doveva essere il processo del secolo, è lo scandalo giudiziario del secolo

Il processo Eni-Nigeria si conclude con un’assoluzione senza appello degli imputati. E con una condanna senza appello, non penale ma professionale, dei magistrati che per anni li hanno accusati. La procura generale di Milano ha rinunciato a presentare il ricorso contro l’assoluzione in primo grado dei 15 imputati, 13 persone tra cui l’ad di Eni Claudio Descalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni oltre alle società Eni e Shell, accusati di corruzione internazionale per una presunta tangente da oltre 1 miliardo di dollari che sarebbe stata pagata dalle due società petrolifere ai politici nigeriani per aggiudicarsi i diritti di esplorazione sul blocco Opl-245. È  quindi definitiva l’assoluzione di primo grado perché “il fatto non sussiste”. L’assoluzione arriva dopo un’altra assoluzione definitiva a due intermediari, Obi e Di Nardo, accusati per lo stesso reato, che però avevano scelto il rito abbreviato. Oltre alle assoluzioni dei tribunali italiani, c’era stata anche una sentenza in Regno Unito, dell’Alta corte inglese specializzata in controversie commerciali internazionali, che aveva escluso la corruzione.

 

In sostanza, quella che è stata presentata dal pm milanese Fabio De Pasquale, e per anni da tutti i media al seguito, la più grande tangente della storia, una mazzetta che è almeno il quadruplo della maxi tangente Enimont, non è mai esistita. Non è che manchino le prove, e quindi i “colpevoli l’hanno fatta franca”, è che non c’è proprio la corruzione. È come se al termine di un processo per omicidio si scoprisse, clamorosamente, che il morto è vivo. In questo processo, paradossalmente, l’unico reato possibile è il processo stesso. Che doveva essere il processo del secolo e invece si è rivelato lo scandalo giudiziario del secolo. A dirlo è la pg Celestina Gravina, che in teoria avrebbe dovuto rappresentare l’accusa, ma studiando le carte si è ritrovata a prosciogliere gli imputati e ad accusare i suoi colleghi della procura di Milano per come hanno portato avanti l’incheista: “Questo processo deve finire perché non ha fondamento”, ha detto ai giudici della Corte d’appello di Milano. La pg Gravina ha aggiunto che proseguire con l’appello, come chiesto dalla procura di Milano, vorrebbe dire prolungare una “situazione che è contra legem rispetto alle regole del giusto processo”.

 

Si tratta, in buona sostanza, di un processo che non sarebbe mai dovuto iniziare. E che, proprio per questo motivo, per poter andare avanti ha dovuto calpestare il diritto al giusto processo degli imputati, come ha sottolineato la procura generale, e probabilmente anche commettendo dei reati. Al termine di questa vicenda, infatti, c’è stato un completo ribaltamento dei ruoli: gli imputati tutti definitivamente assolti e i magistrati dell’accusa imputati proprio per come hanno condotto l’inchiesta. Appena un mese fa, infatti, la procura di Brescia ha chiesto il rinvio a giudizio dei pm responsabili dell’inchiesta, Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, per “rifiuto d’atto d’ufficio”. L’accusa, emersa durante il processo di primo grado, è quella di non aver depositato prove importanti a favore degli imputati, che dimostravano l’inattendibilità dei testimoni d’accusa e il movente alla base delle sue false dichiarazioni. In un video, infatti, l’ex manager Eni Vincenzo Armanna – cacciato dall’azienda per aver fatto la cresta sui rimborsi – annunciava ad alcuni possibili soci in affari che si sarebbe “adoperato” contro i vertici dell’Eni per “far arrivare loro un avviso di garanzia” facendogli piombare addosso una “valanga di merda”. L’obiettivo era, appunto, quello di far rimuovere diversi manager dell’Eni a lui ostili per poi poter concludere alcuni affari in Nigeria. I giudici di Milano, nella sentenza di assoluzione dell’Eni, scrivono che l’omissione della prova da parte della procura “risulta incomprensibile” perché quel video “portando alla luce l’uso strumentale che Vincenzo Armanna intendeva fare delle proprie dichiarazioni e della auspicata conseguente attivazione dell’autorità inquirente, reca straordinari elementi in favore degli imputati”. In sostanza, è successo che il pm De Pasquale ha imbastito un’inchiesta senza prove, con soli indizi e testimonianze false, ma ha ignorato o nascosto l’unica vera prova a disposizione: quella che scagionava gli imputati.

 

È qualcosa di veramente anomalo, soprattutto se si considera il credito che la procura ha dato a personaggi completamente improbabili e inattendibili. A parte le figure di Armanna e Piero Amara, quest’ultimo valorizzato persino per gettare fango sui giudici, surreali sono state le scene dei due “Victor”, personaggi nigeriani presentati come testi chiave e invece autori di audizioni imbarazzanti in cui, in sostanza, hanno smentito di essere se stessi e le loro stesse accuse. “Sono stati assunti superficialmente dei fatti privi di prova, fondati sul chiacchiericcio, sulla maldicenza, su elementi che mai sono stati valorizzati in alcun processo penale”, sono le durissime parole usate appena un anno fa dalla pg Gravina per descrivere il lavoro della procura di Milano, quando ha chiesto l’assoluzione degli imputati in un troncone del caso Eni-Nigeria. E confermate ora con la decisione di non fare appello contro le assoluzioni di primo grado. Allora la Gravina parlava di un’accusa “che non esiste in natura”, di un’imputazione che è “una chimera composta di pezzi di fatti” assemblati da una “stigmatizzazione moralistica” e da una “ideologia” terzomondista.

 

Si tratta, in sostanza, di un processo che non sarebbe neppure dovuto iniziare. E non si può neppure dire, come si usa di solito, che “giustizia è fatta”. Da un lato perché l’enorme spreco di risorse per mettere in piedi questo processo ha causato anni di ingiuste sofferenze agli imputati ed enormi danni economici e reputazionali a Eni e Shell, che a 11 anni dall’acquisto pienamente legittimo di quella licenza esplorativa hanno investito 2,5 miliardi di dollari senza aver estratto neppure un barile di petrolio, proprio perché tutto è stato bloccato dal procedimento giudiziario. Dall’altro perché sono ancora aperte le vicende giudiziarie dei pm De Pasquale e Spadaro, accusati di aver nascosto le prove alla difesa, e di Amara e Armanna, i due supertestimoni ritenuti affidabili dalla procura di Milano e ora accusati dalla stessa procura di calunnia per aver accusato “pur sapendoli innocenti” i vertici dell’Eni. Insomma, ciò che è certo è che se nell’inchiesta Eni-Nigeria c’è un reato, il reato è l’inchiesta. Resta da capire come sia possibile, e questo è un problema del funzionamento della giustizia, che accadano cose del genere.

 

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali