I tabù sulla giustizia che la politica non vuole affrontare. Parla Nordio

Annalisa Chirico

Nel suo ultimo libro, l'ex magistrato offre una diagnosi impietosa della moltitudine di guasti e fallimenti che hanno segnato gli ultimi trent'anni della vita politica, sociale ed economica del nostro paese. Il nodo? I tribunali ingolfati, le procure che comandano

Non è diventato presidente della Repubblica ma Carlo Nordio resta un pensatore finissimo, magistrale, sulla giustizia che non va. Il suo libro fresco di stampa, “Giustizia Ultimo Atto” (Guerini Associati), offre una diagnosi impietosa della moltitudine di guasti e fallimenti che hanno segnato gli ultimi trent'anni della vita politica, sociale ed economica del nostro paese. Il nodo? I tribunali ingolfati, le procure che comandano. La pretesa palingenesi del sistema, che l'inchiesta Mani Pulite avrebbe portato con sé, si è rivelata un'illusione. “Dopo anni di indagini severe e serrate – scrive l'ex procuratore aggiunto di Venezia Nordio – dopo centinaia di condanne eseguite o sospese, dopo decine di carriere politiche compromesse o stroncate, dopo ripetuti conati normativi per creare nuovi reati e inasprire le pene, e dopo i pomposi proclami 'spazza-corrotti', la corruzione è continuata e si diffonde progressivamente, sotto nuove forme e con nuove insidie”.

  

Intanto la nomina dì Marcello Viola nuovo procuratore della Repubblica di Milano sembra segnare la fine di un’epoca. “Non è l’inizio della fine, ma almeno la fine dell'inizio. L’ usucapione da parte della corrente di sinistra della dirigenza della procura, per quanto affidata a grandi magistrati, era una ipoteca anche mediatica sull’ufficio simbolo di Mani pulite. Altra buona notizia è che il Csm si sia svincolato, per ora, dai veleni delle intercettazioni del caso Palamara, che sono state selezionate, strumentalizzate e probabilmente riportate in modo ambiguo anche  per impedire la nomina di Viola”.  In Italia la “giurisdizionalizzazione”, intesa come intrusione delle decisioni giudiziarie in materie squisitamente politiche, teorizzata dal giudice Antoine Garapon già negli anni Ottanta, è andata oltre: non si è limitata, come nel resto d'Europa e negli Stati uniti, a colmare vuoti normativi ma ha interferito nei due momenti più significativi della dialettica democratica: l'elezione dei rappresentanti del popolo e la formazione delle leggi.

 

La toga blu della magistratura italiana ricorda le parole pronunciate dal ministro della Giustizia Marta Cartabia a Taormina, nel settembre del 2021, a proposito della necessità di “recuperare” la statura che la Costituzione assegna al magistrato nel momento del giuramento. Disciplina e onore. Nella “atmosfera innovatrice”, inaugurata dall'avvento di Mario Draghi a Palazzo Chigi, Nordio ritiene possibile il cambiamento, anche per via referendaria grazie all'iniziativa promossa da Lega e Radicali. L'ex magistrato sostiene la consultazione popolare, pur riconoscendo i limiti tecnici di un referendum “abrogativo” che, per sua natura, “non può costruire un sistema ex novo ma solo eliminarne alcune storture”. Come già accaduto in passato, per esempio negli anni Settanta sul divorzio, una “univoca pronuncia del popolo”, al quale la sovranità appartiene, potrebbe innescare una “rivoluzione copernicana” contro l'inerzia della politica. Con riguardo alla giustizia penale, Nordio auspica il superamento della “contraddizione insanabile tra il  codice attuale di procedura penale e la Costituzione”.

 

Il codice Vassalli, infatti, nasce con un impianto anglosassone, à la Perry Mason, di impronta garantista e liberale. “Anche il profano – riflette l'autore – può rendersene conto spulciandone gli articoli dove le modifiche, soppressioni e integrazioni sono più numerose del testo originale. Ecco perché questa sgangherata Cinquecento, con il motore truccato di una Ferrari, non può funzionare per quanta benzina ci si metta. Bisogna cambiare veicolo”. Stando alla metafora automobilistica, serve una “Ferrari vera”, bisogna modificare la Costituzione. In quale direzione? Il rito accusatorio di stampo anglosassone si fonda su alcuni solidi princìpi: la divisione delle carriere, la distinzione tra giudice del fatto e del diritto, la discrezionalità dell'azione penale. Ma per la magistratura associata l'obbligatorietà dell'azione penale è un corollario irrinunciabile dell'indipendenza togata. Nordio si dice a favore di “una discrezionalità vincolata a criteri oggettivi che il 'District Attorney' è tenuto a rispettare in base al concreto allarme sociale suscitato dai differenti reati e alle probabilità di successo dell'indagine”. Insomma, non significa dare carta bianca ma adottare un “criterio pragmatico, coerente con la natura elettiva del 'Prosecutor' che viene nominato dai cittadini”.

 

Del resto, nel sistema attuale italiano l'obbligatorietà si tramuta spesso in arbitrio dal momento che il magistrato, considerata la limitatezza di mezzi e risorse, è chiamato ad operare una selezione nella mole di notizie di reato. E' costretto a una scelta. “Come capo della polizia giudiziaria, il Pm ha una reale autorità esecutiva”, scrive Nordio a proposito della facoltà, per la pubblica accusa, di disporre intercettazioni telefoniche e ambientali, nominare consulenti, sguinzagliare investigatori e spedire avvisi di garanzia. “Ma come magistrato lo stesso Pm gode delle garanzie dei giudici e quindi è svincolato da quei controlli che, in ogni democrazia, accompagnano e limitano l'esercizio di un potere”.

 

Secondo Nordio, alla base del dissesto del processo penale, oltre al binomio obbligatorietà dell'azione penale – informazione di garanzia (trasformatasi, ahinoi, in anticipo di condanna con gli inevitabili echi mediatici), vi sono l'unità delle carriere e la disciplina della custodia cautelare, entrambi oggetto del prossimo referendum. A chi invoca la “cultura della giurisdizione” che dovrebbe permeare anche l'organo inquirente grazie all'unità delle carriere, Nordio ribatte che, essendo la giurisdizione un tavolo a tre gambe, pure gli avvocati dovrebbero essere coinvolti. Come negli ordinamenti anglosassoni dove le carriere più che separate sono interscambiabili, nel senso che l'avvocato può diventare procuratore distrettuale e viceversa, ed entrambi possono ambire alla carica di giudice. Si palesa, ancora una volta, il vizio originario del nostro codice à la Perry Mason: il voler emulare il sistema americano tenendo in piedi la nostra vecchia impalcatura dogmatica. Per comprendere la necessità di carriere separate, l'autore evoca il processo sulla cosiddetta trattativa stato-mafia dove la pubblica accusa è stata rappresentata, tra gli altri, dall'attuale componente del Csm Di Matteo. La Corte d'assise ha smontato l'impianto accusatorio, assolvendo il generale Mori e gli altri imputati. “Se i due giudici togati di questa Corte domani fossero valutati ai fini della promozione, chi si troverebbero a decidere presso il Csm? Proprio (anche) il dottor Di Matteo che a quel punto si troverebbe a giudicare i suoi ex giudici”. Un guazzabuglio, per non dire un manicomio.