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Dal revenge porn al rito abbreviato, le urgenze del giustizialismo show

Annalisa Chirico

Perché certi reati emozionano, ma le società che hackerano i nostri dati (lavorando per le procure) no? Una politica malata

Roma. Per comprendere l’approccio della politica nostrana alle cose giudiziarie, si osservino i fatti degli ultimi giorni. Mentre i pm napoletani scoperchiano il vaso di Pandora delle presunte malefatte imputate ad alcune aziende incaricate dallo stato di intercettare le utenze telefoniche di migliaia di ignari cittadini, il tema sul quale i deputati scoprono una sorprendente unanimità (461 voti a favore, zero i contrari) è il porno, o meglio la cosiddetta “revenge porn”. Detto così, suona strano: riproviamo. Mentre i magistrati partenopei, guidati dal procuratore capo Giovanni Melillo, indagano i quattro titolari delle due società informatiche, titolari dell’appalto con le procure di mezza Italia, con l’accusa di aver creato un archivio riservato contenente migliaia di foto, video, conversazioni private, via WhatsApp, non si sa bene a quale scopo, i politici di ogni schieramento si arrovellano sulla porno vendetta, fenomeno deprecabile, anzi osceno e infame, ma non esattamente emergenziale.

 

Tuttavia, sulla scia del caso Giulia Sarti, la iattura delle foto osé in rete inonda le cronache quotidiane e s’impone negli animi degli onorevoli e delle onorevoli, stimola l’esibizione di rose rosse e ammennicoli rossi, infiamma il fior fiore degli intellò, tutti unanimi, pure loro, nella condanna del “salaud” (il porco, per dirla alla francese). Ora, da queste parti non si nutre alcuna simpatia per fidanzati ed ex amanti che, per gioco o ritorsione, diffondono o pubblicano immagini sessualmente esplicite senza il consenso della persona interessata. Perciò l’emendamento approvato è di per sé positivo: colma un vacuum normativo dal momento che la fattispecie in oggetto non è riconducibile né all’estorsione (il fatto è spesso commesso per vendetta e non per un tornaconto economico) né allo stalking che esige la reiterazione della condotta. Oggigiorno la vittima può sporgere denuncia per diffamazione e lesione della privacy, troppo poco; quando la legge avrà compiuto il suo iter anche al Senato, invece, grazie all’incriminazione ad hoc il colpevole rischierà da uno a sei anni di carcere.

  

Salutata con favore l’iniziativa parlamentare sul “codice rosso”,
viene da domandarsi se il Parlamento non possa impiegare la stessa sollecitudine nell’affrontare questioni di giustizia meno mediatiche,
ma non meno preoccupanti, come la difesa dei diritti
e delle libertà personali. Il caso Napoli

   

Salutata con favore l’iniziativa parlamentare, viene da domandarsi se il Parlamento non possa impiegare una sollecitudine paragonabile per fornire una risposta ugualmente tempestiva attorno a vicende forse meno mediatiche ma non per questo meno preoccupanti sul fronte della difesa dei diritti e delle libertà personali. Come si diceva, la “porno vendetta” è assurta alle cronache per l’esperienza incresciosa capitata a Giulia Sarti, l’ex presidente della commissione Giustizia accusata di aver denunciato in procura un suo ex collaboratore pur nella consapevolezza della di lui innocenza. Sarti, all’inizio della propria parabola politica, era già incappata in una brutta storia di hacking e foto osé, le sue, misteriosamente trafugate, forse a scopo ricattatorio; sempre lei aveva pensato bene, in tempi più recenti, di dotare il suo appartamento di un sistema di telecamere: per strani giochi erotici o, piuttosto, per l’esigenza di auto-tutelarsi in un movimento abituato a fono e videoregistrazioni?

 

Di “porno ricatto”, quello vero, si muore, è accaduto a Tiziana Cantone, una ragazza troppo fragile per reggere l’urto dei pettegolezzi, delle occhiatacce, delle illazioni malevole; al di là del clamore mediatico del singolo caso e della legislazione d’urgenza che ne consegue, esiste tuttavia un fenomeno più vasto che ha a che fare con lo spazio della tecnologia nelle nostre vite, con l’urgenza di affermare un principio di responsabilità individuale in relazione a ciò che concediamo di noi agli altri, spesso con distrazione. Un approccio esclusivamente normativo non basta: anche se il “contratto di governo”, che tiene insieme Luigi Di Maio e Matteo Salvini, suggella una visione fondata sul reato come panacea di ogni male, il diritto penale non è onnipotente. I giovani, per esempio, hanno bisogno di una “educazione digitale”, sin dalla scuola primaria, che li renda padroni del proprio smartphone, non succubi; servono pure meccanismi efficaci per la rimozione immediata dei contenuti incriminati dalle piattaforme web. Detto in altri termini, il penale serve ma non sempre, e pure nei casi in cui serve non è detto che esso sia sufficiente.

 

La medesima illusione repressiva è all’origine della riforma del rito abbreviato che, nello stesso giorno dell’approvazione del “codice rosso”, ottiene il via libera definitivo di Palazzo Madama. Il provvedimento, licenziato dalla commissione Giustizia lo scorso 5 marzo, anche in questo caso con una celerità singolare, è diventato legge: in base alle nuove norme, se a seguito di contestazioni del pubblico ministero si procede per delitti puniti con l’ergastolo, “il giudice revoca l’ordinanza con cui era stato disposto il giudizio abbreviato”. Chi è accusato di reati come devastazione, saccheggio, strage, omicidio e sequestro di persona aggravato, in caso di condanna all’ergastolo, non potrà più ottenere lo “sconto” a trent’anni, come avveniva fino a ieri. Pur tralasciando l’intento propagandistico insito nel “fine pena mai”, la questione è complessa, e riguarda l’approccio del nostro sistema verso i cosiddetti riti alternativi.

 

Nell’abbreviato, per intendersi, si realizza un baratto esplicito, su base volontaria, tra garanzie ed entità della pena: l’imputato può scegliere, liberamente, di rinunciare a un dibattimento pieno, accettando dunque il pronunciamento del giudice allo stato degli atti (quelli contenuti nel fascicolo del pubblico ministero), in cambio di una riduzione della condanna. Si può contestare l’idea di fondo che le garanzie vengano confiscate sull’altare dell’efficienza procedurale, ma se invece si ammette questo principio è innegabile l’effetto benefico che tali riti, patteggiamento incluso, hanno avuto al fine di deflazionare il carico dei procedimenti pendenti. Con l’abbreviato si fa prima, e per paradosso, soprattutto nei reati di sangue a elevato impatto emotivo, la maggiore celerità va incontro all’esigenza della vittima, e dei suoi familiari, di avere giustizia senza attendere i tempi pachidermici del rito ordinario. Si aggiunga poi che trent’anni dietro le sbarre (tale era la pena massima “scontata” prima della riforma) non sono esattamente una passeggiata di salute, né un episodio secondario nell’esistenza di una persona, a meno che non si tenga a modello il patibolo di Halifax o la ghigliottina francese. Piuttosto che abboccare all’amo della facile propaganda, la domanda legittima di una pena certa ed effettiva andrebbe affrontata da un altro verso: i benefici successivi alla condanna, quelli sì che andrebbero sfrondati con una revisione organica che minimizzi gli automatismi attuali. Certe “uscite anticipate” umiliano il senso di giustizia, e riconoscerlo non è da manettari.

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