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il foglio sportivo

L'ultima fatica di Gino Bartali

Giovanni Battistuzzi

L'addio alle corse a Città di Castello il 28 novembre del 1954 e il ciclismo come missione. Ginettaccio tra bici e fede 

Era da tempo che ci pensava, anche se non l’aveva ancora detto pubblicamente, fosse mai un ripensamento, un’altra occasione. S’era lasciato la porta aperta per ogni evenienza, perché uno come lui, nonostante l’età, poteva ancora servire. A una squadra, a un progetto, al ciclismo. Certo quarant’anni non erano pochi e la vittoria non se la gustava dal Giro di Toscana dell’anno precedente, quando, il 26 giugno del 1953, aveva rifilato oltre due minuti a tutti quanti. A dirla tutta non è che fosse l’età il problema, ma la gamba che aveva rischiato di perdere per una cancrena. Era successo tutto in pochi minuti in un pomeriggio di fine ottobre quando una macchina aveva centrato la sua sulla Milano-Como. “Non correrai più”, gli avevano detto. Lui aveva brontolato e alla Milano-Sanremo del 1954 si era presentato al via, “che deve ancora venire quello che fa fuori Gino Bartali”.

 

Era da tempo che ci pensava, anche se non l’aveva detto pubblicamente, forse per il semplice fatto che neppure lui ne era davvero convinto. Però l’aveva scritto in una lettera al cardinale Elia Dalla Costa che “i tempi sono cambiati e io con loro”, sebbene “non manchi lo spirito e l’ardore di un tempo, la volontà di continuare a fare del mio ancora in sella”. La bicicletta d’altra parte continuava a essere quello che era sempre stata, “una missione, il compiersi della volontà di Dio”, perché “questo talento mi ha concesso e questo è quanto devo continuare a fare sino a quando avrò forza di farlo”.

 


Gino Bartali alla punzonatura della Milano-Sanremo del 1952 (foto LaPresse)


  

Non erano le vittorie a interessarlo, non più almeno. Non i piazzamenti o i contratti con squadre o sponsor, quanto la necessità di non tradire la parola data al fratello Giulio pochi giorni prima della sua morte. “Te pensa a passare professionista che poi ci penso io a farti diventare un corridore e non un acquaiolo. E non arrabbiarti se anche da vecchio mi dovrai guardare la schiena, che fino a che non ti ritiri te non mi ritirerò neppure io. Te lo prometto”. Giulio morì il 16 giugno 1936 dopo essere stato investito da una Balilla in corsa senza mai diventare professionista. Gino di smettere c’aveva pensato, l’aveva messo in conto. Poi decise di continuare e di pedalare sino a quando la sua missione non si fosse compiuta.

 

Perché il ciclismo per Bartali non è stato mai solo competizione e agonismo, c’era qualcosa di più profondo a spingerlo a correre, ad alzarsi sui pedali e incrementare la velocità in salita. “Credo che il faticare in sella sia ciò che più si avvicina alla preghiera. Quando muovo i pedali percepisco una vicinanza con il Creato con il grande Mistero che ci accompagna nella vita. Non vorrei sembrarLe blasfemo o irriverente a dirLe queste cose, ma esiste in me una vicinanza tra la bicicletta e la funzione religiosa”, scrisse sempre al cardinale Dalla Costa. Una preghiera che non poteva finire, che avrebbe portato avanti sino al termine dei suoi giorni se solo avesse potuto. E invece le gambe, per la prima volta nella sua vita, gli avevano iniziato a giocare contro, le sentiva diverse, vedeva, soprattutto, quelle degli altri vorticare più forte. E l’avevano visto pure gli altri. L’evidenza scese un giorno da un’Alfa Romeo, la proposta prese suono da una bocca che conosceva. Un ritrovo, una riunione su pista tutta per lui, con gli amici e rivali di sempre. Una festa sui pedali. Una festa che non poteva essere altro che in bicicletta vista la storia e la grandezza del festeggiato.

 

Era da tempo che ci pensava, anche se non l’aveva detto pubblicamente. Ma si sa che certe cose prima o poi si capiscono, fosse solo per una mezza parola, uno sguardo sfuggente. Una pacca sulla spalla, data da quella manona che conosceva bene, la stessa che cingeva il volante della 1900 e che anni prima l’aveva aiutato nel tornare a Firenze dopo l’esilio a Nuvole, pochi chilometri da Città di Castello, e a falsificare documenti per salvare chi le SS e fascisti volevano sterminare. “Vieni?”. “Non so se smetto”. “E allora ne faremo altre sino a quando non sarà il momento”. Gino borbottò qualcosa, si convinse. Si faccia, suvvia.

 

E così si ritrovò in sella il 28 novembre 1954. Tutt’attorno le tribune del velodromo di Città di Castello, al suo fianco Fausto Coppi, il rivale migliore e più difficile da battere che mai avesse avuto, Giovanni Corrieri, l’unico di cui si era mai davvero fidato ciecamente, Alfredo Martini, il solo di cui ascoltava i consigli. Due prove: individuale e velocità. Un circuito di un paio di chilometri per la prima, che non poté che vincere quel bischero del Fausto; due giri di velodromo a doppia manche per il secondo, ma con quarti, semifinali e finali, per soddisfare gli spettatori, che mai ce ne erano stati tanti nella struttura: oltre tremila. Si sbarazzò prima di Primo Volpi, impresa facile visto che quel pazzo d’un anarchico in pista proprio non andava. Poi fece fuori Coppi, così per una volta non l’era tutto sbagliato e tutto da rifare. E infine si mise dietro pure l’Alfredo. Vittoria. Brindò al successo. Diede appuntamento a tutti a Milano, per la Sanremo, che “Vecchio mi chiamate da anni, ma dietro al Gino ci finite ancora”.

 

A Milano Coppi, Martini, Corrieri e tutti gli altri Ginettaccio lo videro, ma con un impermeabile addosso e una berretta di lana in testa. Sentirono i suoi borbottii, le sue risate. Lo videro mandarli a quel paese sorridendo prima di salire in macchina. Il 9 febbraio 1955 aveva detto addio al ciclismo. Capirono subito la fortuna che avevano avuto quel 28 novembre 1954: avevano assistito al canto del cigno del campione di Ponte a Ema.

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