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Il Giro d'Italia 2020 partirà da Budapest. La voglia di ciclismo del populismo ungherese

Giovanni Battistuzzi

Tre le tappe che la corsa rosa disputerà in Ungheria il prossimo anno. Un modo per rilanciare un movimento che sta vivendo una nuova primavera. Sia nelle città che nelle competizioni

Quando a Budapest si era iniziato a parlare, a bassa voce, quasi fosse una piccola utopia da non far sapere, della possibilità di ospitare una partenza di una grande corsa a tappe ciclistica era il 2014. Da pochi mesi il ministro dei trasporti ungherese Völner Pal aveva sottoscritto la Carta Nazionale del Ciclismo, ossia il documento redatto da sette associazioni magiare in collaborazione con l’European Cyclists’ Federation nel quale il Governo si impegnava a raccogliere 400 milioni di euro di fondi (200 dall’Unione Europea e altri 200 indiretti) da destinare alla mobilità a pedali. L'utilizzo della bicicletta da parte degli ungheresi era cresciuto in modo sensibile nei precedenti dieci anni (più 197 per cento) e i ciclisti urbani avevano iniziato a far sentire la loro voce a tal punto da essere stati identificati come interlocutori da non poter essere trascurati.

 

Gli interventi in favore di una ciclabilità sempre più estesa stanno ancora continuando: secondo il Barometro ECF del 2015 l'Ungheria era l'ottavo paese europeo per qualità della mobilità a pedali. Solo a Budapest, nel 2017, sono stati registrati oltre 2,5 milioni di tragitti in bicicletta all'anno e chi utilizza questo mezzo è salito al 22 per cento.

 

E mentre gli ungheresi tornavano a pedalare, la federazione ciclistica, aiutata da un cospicuo incremento dei fondi concessi dai due governi Orbán, ha cercato di colmare il gap con gli altri movimenti ciclistici europei. Prima rafforzando il comparto della mountain bike – che ha portato nel 2015 il bronzo mondiale di Lilla Megyaszai nel downhill femminile (categoria junior) –, poi contribuendo alla rinascita del ciclismo su strada. Il ritorno in calendario del Tour de Hongrie, sparito nel 2008 e riapparso nel 2015, è stato il primo passo di avvio di un nuovo calendario nazionale che ha triplicato negli ultimi tre anni corse e tesserati. Anche grazie all'impegno dell'azienda di produzione di salumi Kometa che oltre a sponsorizzare il team di Ivan Basso e Alberto Contador ha creato (assieme alla federazione) un'accademia per avvicinare i migliori corridori magiari al professionismo.

 

Mancava il colpo grosso. È arrivato oggi, lunedì 15 aprile, quando all’Istituto Italiano di Cultura di Budapest, è stato reso noto che il Giro d'Italia del 2020 partirà dalla capitale ungherese e in Ungheria correrà tre tappe. Sarà quello del prossimo anno il quattordicesimo avvio oltre confine della corsa rosa (il primo fu da San Marino nel 1965, l'ultimo nel 2018 da Gerusalemme).

 

L'Ungheria ha guardato all'Italia non tanto per la vicinanza, almeno a parole, tra Matteo Salvini e Orbán, quanto per la maggior semplicità (e minor costo) di avviare una trattativa con Rcs rispetto alla Aso (la società che organizza il Tour de France). D'altra parte così funziona nel ciclismo moderno: Giro, Tour e Vuelta sono appuntamenti di interesse mondiale, sono gestiti da società private che devono produrre utili, e le partenze di una grande corsa a tappe è una vetrina che genera interesse, turismo e prestigio internazionale. E proprio per questo costa. Budapest (e l'Ungheria) ha deciso che il denaro da versare nelle casse del Giro era congruo e si è accaparrata quella che in francese chiamano Grand Départ.

 

L'obiettivo della federazione (e del governo) ungherese è quello di incrementare ancor più l'interesse attorno a questo sport. E riuscire a organizzare una squadra professionistica capace di raggiungere il World Tour nel giro di qualche anno. All'interno del cerchio magico di Orbán, infatti, diverse voci negli ultimi anni hanno consigliato il premier di non ostacolare il cambio della mobilità urbana delle città per non perdere consenso e di puntare sul ciclismo nazionale in quanto sport capace di attirare interesse a un costo decisamente basso rispetto al calcio. E nell'èra Orbán il ciclismo magiaro si è rafforzato ed è tornato a produrre talenti come non succedeva da decenni. L'ultimo corridore di valore era stato László Bodrogi, ritiratosi nel 2012 dopo aver vinto 21 corse in carriera. Barnabás Peák, Attila Valter e János Pelikán sono i tre capofila di un movimento che però aspetta la crescita di Ádám Kristóf Karl, già stagista al Kometa Cycling Team, per tornare a figurare nei grandi palcoscenici mondiali.

 

E guardando all'Italia l'Ungheria è ritornata al 1925.

Erano i primi giorni di febbraio quando a Milano arrivarono tre uomini da Budapest. Avevano un indirizzo in mano: quello della redazione del maggiore quotidiano sportivo italiano, la Gazzetta dello Sport. Avevano un nome scritto su di un bigliettino e una sacco di domande. Quel nome era Armando Cougnet, primo patron del Giro d'Italia, l'uomo con cui a lungo discusse il direttore del Nemzeti Sport a proposito di un suo progetto ciclistico. Quei tre uomini si chiusero nella stanza di Cougnet per diverse ore, uscirono da lì con un corso accelerato di organizzazione di eventi sportivi. Pochi mesi dopo, il 27 giugno 1925, partì da Budapest la prima edizione del Tour de Hongrie. Tre tappe in tre giorni: la Budapest – Szombathely di 240 chilometri, la Szombathely – Gyor di 140,5 chilometri, la Gyor – Budapest di 130 chilometri. Ad aggiudicarselo fu Károly Jerzsabek, ciclista magiaro che aveva iniziato a pedalare a Trieste, all'epoca porto dell'Impero austro-ungarico.

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