Foto tratta dal profilo Twitter di Ipajo Papelo ‏ (@ipajo)

Cronaca di un'altra morte annunciata

Giovanni Battistuzzi

Ancora un ciclista morto a Roma: un uomo di sessant'anni è stato investito e trascinato da un pullman tra via Merulana e viale Manzoni

A Roma ci sarà una nuova bici bianca a bordo strada, come se non bastassero tutte le altre disseminate per la città. In questo modo infatti vengono ricordati i ciclisti che perdono la vita sulle strade. La si vedrà all'incrocio tra viale Manzoni e via Merulana, quattro passi dal Colosseo, due passi dalla basilica di San Giovanni in Laterano. Si parlerà di strade killer, come se le strade uccidessero. Si parlerà dell'emergenza sicurezza sulle strade, della pericolosità di pedalare a Roma, come se pedalare per la capitale equivalesse a un tentativo di suicidio. Si parlerà di un sacco di cose, di fatalità, come se essere investiti mentre si è in sella è legato esclusivamente a un destino infame. Si dirà che non si possono eliminare le macchine dal centro, che la gente ha il diritto di muoversi. Eppure c'è anche un diritto alla vita che prevale rispetto a quello di muoversi in automobile. Perché anche chi pedala ha il diritto di muoversi e di tornare a casa sano e salvo. E non è possibile essere investiti e trascinati per decine di metri da un pullman alle 5,45 di un mattino qualsiasi. La vittima era un uomo di sessant'anni. E' morto sul colpo, dicono le forze dell'ordine. Oggi nel luogo dell'incidente tra via Labicana e via Merulana dalle 18 alle 21, l'associazione Salvaiciclisti ha organizzato un sit-in per commemorare il ciclista ucciso.

 

 

Sulle strade di Roma dall'inizio dell'anno sono rimaste centocinquanta vite. Alcuni erano ciclisti (martedì 4 dicembre, sulla Salaria, ne era morto un altro, si chiamava Andrea Maida, era musicista della banda musicale dell'Arma dei Carabinieri), molti erano automobilisti. Centocinquanta vite sono un prezzo che nessuna città può pagare. Sono perdite che non possono essere tollerate, sono numeri di una guerra che in Italia ancora ci ostiniamo a non vedere. Eppure sono tutte morti annunciate.

 

Annunciate da una progressiva e costante mancanza di buon senso da chi si ostina a considerare indispensabile muoversi a bordo di un mezzo a motore, da chi non capisce che la strada è un luogo di tutti, dove si dovrebbe usare prudenza e intelligenza, dove si dovrebbe usare un surplus di concentrazione, dove si dovrebbero rispettare regole precise e necessarie.

 

Annunciate dall'incapacità di capire che un mondo diverso è possibile, che strade intasate, code chilometriche e bus in costante e patologico ritardo non sono qualcosa di casuale, ma è conseguenza diretta di scelte personali.

 

Annunciate dalla miopia di amministrazioni comunali che considerano la mobilità come qualcosa di marginale nella gestione di una città. Non è così. E l'hanno scoperto praticamente ovunque.

 

Parigi è un esempio che meglio degli altri può far riflettere. La capitale francese nel 2000 era paragonabile a Roma per numero di veicoli, di incidenti e di morti in strada. In quell'anno oltre 200 persone avevano perso la vita, il 15 per cento di questi erano ciclisti. Da allora prima le amministrazioni che si sono susseguite alla guida della città hanno deciso che così non si poteva andare avanti, che qualcosa doveva essere fatto, che la mobilità è il centro nevralgico dell'amministrazione cittadina. Hanno capito soprattutto che non è con qualche pista ciclabile in più che si risolve il problema. Dal 2001 la giunta guidata da Bertrand Delanoë ha iniziato ad adottare politiche per la riduzione del traffico cittadino che è diminuito quasi del 40 per cento in sedici anni. Secondo Denis Baupin, responsabile dei Trasporti e della Mobilità nella prima giunta Delanoë, cambiare "la mobilità di una città non è qualcosa di dispendioso a livello economico, è difficile a livello culturale". Gli interventi dell'amministrazione parigina infatti "sono stati nella maggior parte dei casi a costo quasi zero. Non è necessario creare nuove infrastrutture, è necessario disincentivare l'utilizzo del mezzo privato, abbassare la velocità media dei veicoli, rendere allettante il trasporto alternativo all'auto. E per fare tutto questo due cose sono necessarie: sensi unici e zone a velocità controllata. Se si introducono zone 30 (velocità massima di trenta chilometri all'ora e strade condivise con biciclette e pedoni) i rischi per tutti si abbassano, si avvicinano allo zero e la qualità della vita migliora. Chi le prova non torna indietro", disse al Parisien nel 2002. "Nessuno vuole abolire le auto, razionalizzarne l'utilizzo però è l'unica via per rendere civile una città".

 

A Roma invece l'amministrazione capitolina, che durante la campagna elettorale aveva puntato molto sulla ciclabilità, ancora non è intervenuta, se non sporadicamente, nella sistemazione della mobilità. Eppure nell'agosto del 2017 la commissione Mobilità aveva annunciato che entro la metà del 2018, proprio nella zona dove questa mattina è avvenuto l'incidente mortale, sarebbe stato introdotto un "asse verde per bici e pedoni". "Abbiamo presentato lo studio di fattibilità per il nuovo assetto tra via Labicana e via di San Gregorio, oggi ad alta percorrenza di automobili con gravi conseguenze anche per la salute dei cittadini del quadrante", aveva detto il presidente della Commissione III - mobilità del comune di Roma, Enrico Stefàno: "Tra un anno arriva l'asse verde per bici e pedoni". Promesse che ancora non sono state mantenute.

Di più su questi argomenti: