Giuseppe Civitarese

Giuseppe Civitarese, Freud e non più Freud

Davide D'Alessandro

A colloquio con l’analista di formazione freudiana, che spiega: “Il fondatore è un genio assoluto e ha inventato la psicoanalisi, una forma di relazione umana che prima di lui non esisteva. È una fonte inesauribile di ispirazione e penso che non avrei fatto questo mestiere se non fossi rimasto abbagliato dalla sua intelligenza e dal suo stile di persona e di scrittore. Ciò detto, per quel che mi riguarda, per me essere un analista vuol dire fare riferimento (e contribuire a sviluppare) un paradigma che non è più quello di Freud”

Che cos’è e a che cosa serve l’analisi?

La psicoanalisi è un metodo di indagine sui processi psichici inconsci, una teoria di questi processi e un tipo di psicoterapia. È senza dubbio la cura più efficace per una ampia gamma di disturbi psichici non accessibili con altri tipi di psicoterapia o con i farmaci.

Perché tanti anni fa decise di affidarsi a un analista?

Ho sviluppato assai precocemente una vera passione per la psicoanalisi. Devo dire che con il tempo non è affatto venuta meno. Quasi ogni giorno, lavorando con i pazienti, riscopro la bellezza del metodo, che è una originalissima miscela di teoria e pratica. Vivo la psicoanalisi come l’arte di dare ospitalità all’altro e così di diventare assieme più umani. Ovviamente all’epoca - mi ero appena specializzato in psichiatria e stavo iniziando un dottorato - hanno giocato anche fattori più intimi e personali. Solo dopo anni però mi sono reso conto che ne avevo una percezione piuttosto parziale.

Come scelse i suoi analisti?

Ascoltai i suggerimenti di persone di cui mi fidavo, in particolare di un paio di miei docenti all’Università che erano psichiatri e psicoanalisti. A chi intende fare un’analisi consiglio di non affidarsi al primo venuto. Essendo una forma di cura più giovane e meno standardizzata di quelle della Medicina, è più facile imbattersi in professionisti poco preparati.

Che cosa occorre per fare un ottimo analista?

Dando per scontata la motivazione più o meno conscia a curarsi, di base una solida preparazione. Questa comporta anni e anni di analisi personale, di esperienza clinica e di studio teorico (diciamo che questo dà conto del 95%). Come in tutte le arti e professioni, poi c’è chi ha talento. Come sappiamo, anche se è solo il cinque per cento, è ciò che fa di un analista un grande analista. Ma è difficile dire cosa sia.

Le tante scuole in psicoanalisi aiutano o confondono?

Possono confondere i profani ma non dovrebbero confondere i professionisti del settore. Essi dovrebbero essere al corrente dei valori in campo. Detta in breve, mi aspetterei da un architetto che sappia distinguere tra Renzo Piano e quello, pur apprezzato, che ristruttura appartamenti. Ci sono diverse scuole (quelle serie non sono tantissime, si contano sulle dita di una mano) perché la mente è una cosa assai complessa. Nel tempo c’è chi ne ha approfondito un aspetto e chi un altro. L’effetto Babele poi si accentua se non si vedono le cose nella giusta prospettiva storica. Circolano critici della psicoanalisi che se la prendono con teorie che potevano essere condivise agli inizi del ‘900, ma anche analisti che fanno come se da allora tutto fosse fermo. Da questo punto di vista le istituzioni della psicoanalisi avrebbero bisogno a mio avviso di un profondo rinnovamento. È una cosa risaputa ma che si fatica a promuovere. Dovrebbero diventare come una buona Università e non confondere Università, Ordine professionale e ‘Chiesa’. Questa confusione dà adito a cortocircuiti estremamente disfunzionali. Se non corretti penso che possano portare alla morte non della psicoanalisi, che è quanto mai vitale ed entusiasmante, ma, come ha scritto un grande analista come Otto Kernberg, al suicidio della istituzione psicoanalitica.

Perché ritiene Freud il più convincente dei maestri?

Freud è un genio assoluto e ha inventato la psicoanalisi, una forma di relazione umana che prima di lui non esisteva. È una fonte inesauribile di ispirazione e penso che non avrei fatto questo mestiere se non fossi rimasto abbagliato dalla sua intelligenza e dal suo stile di persona e di scrittore. Ciò detto, per quel che mi riguarda, per me essere un analista vuol dire fare riferimento (e contribuire a sviluppare) un paradigma che non è più quello di Freud. In sostanza Freud mantiene un atteggiamento da scienziato naturalista, anche se poi è uno di quelli che più hanno contribuito a minare le certezze del positivismo. Oggi le parole che guidano la ricerca in psicoanalisi, e anche in gran parte il modo moderno di lavorare, sono intersoggettività relazione campo. Esse esprimono l’idea che non ha molto senso vedere come una mente si sviluppa isolatamente e per tappe, ma occorre invece mettere al centro l’incontro tra menti. Per fare una mente ci vuole un’altra mente (in realtà tutta la socialità più ampia). È una metafora un po’ logora, ma rende l’idea: è come se fossimo passati dalla fisica classica alla fisica dei quanti; fuori di metafora, disponiamo di modelli molto più sofisticati di come la mente nasce e cresce.

Per James Hillman siamo chiamati a “fare anima”. Per lei?

Non so cosa intenda questo autore. Mi capita a volte di usare un’espressione simile quando dico che diventare più umani, diventare sé stessi, cioè realizzare le proprie potenzialità, uscire dalla miseria nevrotica è un processo in cui cerchiamo di allargare la nostra anima, di avere una ‘grande anima’. Cosa voglio dire? Che l’analisi ci aiuta a vedere le cose da più prospettive simultaneamente, ad avere nel nostro finito di più dell’infinito degli altri, a vedere l’ambiguità creativa che c’è nelle cose. È quello che chiediamo in generale alla poesia e al sogno. Quando siamo capaci di cogliere questa ricchezza senza chiuderci difensivamente siamo più liberi. È solo allora che ci sentiamo davvero vivi e reali.   

Chi o che cosa decide quando termina l’analisi?

Nella mia esperienza è qualcosa che semplicemente a un certo punto si impone da sé. Varia da coppia a coppia. Di solito si è d’accordo nel valutare che i problemi che si dovevano affrontare sono stati sufficientemente risolti; a volte bisogna accontentarsi del riuscire a gestirli e a tollerarli, ma anche questo può fare un mondo di differenza nella vita di una persona. È quindi un fenomeno complesso, dove sono in gioco tanti fattori. Non mi convincono regole e schemi fissi. Nessuno fa lo stesso percorso.

Qual è la forma più grave di nevrosi che si trova frequentemente davanti?

Al giorno d’oggi la maggior parte delle persone che vengono in analisi non soffrono delle nevrosi classiche descritte da Freud – sebbene ho visto casi impressionanti di nevrosi ossessive; e quelle cosiddette d’angoscia sono diventati gli attacchi di panico, ecc. – ma soprattutto persone che mostrano carenze strutturali nella costituzione della loro identità. Queste spesso vengono alla luce in occasione di situazioni traumatiche o semplicemente normali situazioni di svolta nella vita ma che implicano lutti e separazioni. Se dovessi cercare un minimo comune denominatore, direi che ciò che produce sofferenza è il fatto che dentro di sé uno ha una specie di persecutore che lo tormenta in continuazione e che ne restringe gli spazi di libertà. Poi i sintomi possono essere anche molto diversi. Possono anche non esserci sintomi vistosi ma un senso di inadeguatezza, di falsità, di noia, di vuoto, di mancanza di vitalità quando magari da tutti gli altri punti di vista uno avrebbe tutti i motivi per essere felice.

Curano di più le parole o i silenzi?

Innanzitutto un’immagine. Quando andiamo a teatro o a un concerto facciamo silenzio; per dire che in analisi è vero che il silenzio è d’oro e le parole d’argento, come recitava un articolo in cui mi imbattei all’epoca in cui stavo compilando la mia tesi di specialità (sul colloquio in psichiatria, appunto). Poi direi che dacché siamo umani, ossia siamo capaci di sapere chi siamo e che pensiamo ecc., non esistono veri silenzi. I silenzi parlano, e ci sono i silenzi nelle parole. Infine, forse la psicoanalisi è l’unica forma di cura che mette il terapeuta nella condizione di tollerare anche lunghi periodi di assoluto mutismo in pazienti gravi, perché dispone di una teoria adeguata a leggere cosa succede in situazioni così estreme e che utilità può esserci nel tollerarle. Basterebbe questo per dire che è unica e insostituibile.

Anche l’analista, come il padre, va ucciso o, se preferisce, oltrepassato?

Qualunque padre dovrebbe essere felice di vedersi oltrepassare (o ‘uccidere’ simbolicamente) dai figli. È la gioia più grande. Lo stesso vale naturalmente per l’analista.

Come si lavora per far crollare le resistenze?

Il concetto di resistenza non ha molto spazio nel mio lessico di analista. Preferisco pensare che se uno ha paura la questione non è di forzare le cose ma di vedere come possiamo far scemare la paura. Chi usa questo concetto di solito sostiene che si allea con la parte sana del paziente contro la parte demoniaca. Ma poi nella pratica quello che si vede è che l’analista finisce per lottare contro tutto il paziente, di tormentarlo ‘moralisticamente’ con interpretazioni persecutorie, spesso di natura causale. Il mio concetto di inconscio non è assolutamente più quello freudiano di un’orda primitiva dedita al piacere e che ha bisogno di un’agenzia psichica di polizia per essere controllata. Alla base ci sono due concezioni diverse dell’aggressività umana, se primitiva oppure se reattiva a una situazione di frustrazione. Per esempio, come pensare l’invidia: come ‘peccato’, espressione della pulsione di morte, distruttività innata, o come il termometro che segnala un qualche serio deficit nella struttura della personalità, cioè come di uno che sta morendo di sete e cui bisogna dare non spiegazioni ma un bicchiere d’acqua?

È più complicata la gestione del transfert o del controtransfert?

Se devo guardare alle definizioni ristrette di questi termini, devo dire che non li uso tanto, perché fanno riferimento a una psicologia del soggetto visto come separato che non mi convince più. Mi pare invece molto più utile ragionare in termini di radicale intersoggettività: non il ping pong da inconscio a inconscio, bensì cosa si genera dall’intrecciarsi dei piani inconsci della personalità di analista e paziente, il dominio terzo o campo il cui funzionamento va indagato con strumenti nuovi.

Per Freud, il sogno è la via regia per accedere all’inconscio. Se viene ben interpretato, aggiungerei. È possibile avere conferma di una buona interpretazione?

È possibile. Naturalmente ci sono conferme macro- e microscopiche, un secondo o un anno dopo. Per Freud i segni erano che il paziente associava più liberamente e che recuperava ricordi rimossi. Al giorno d’oggi le conferme essenziali restano indirette ma vertono più sul significato inconscio veicolato dalla risposta manifesta del paziente; ma non solo, in un’ottica di campo o di sistema, può essere anche qualcosa che può provenire dall’analista (idea, immagine, sensazione, ecc.). L’analista non è uno schermo bianco e anonimo ma è profondamente coinvolto nella relazione con tutta la sua soggettività.

Ha faticato di più a lavorare con il suo inconscio o con quello degli altri?

Sedute faticose c’erano nella mia analisi (in realtà due analisi) e ce ne sono in quelle dei miei pazienti. A volte si capisce dopo che anche queste erano necessarie. Se per ‘fatica’ si dovesse intendere lo sforzo che ci vuole per entrare in contatto con ciò che definiamo inconscio, anche qui, ogni volta è una storia diversa e una nuova storia. Resta comunque l’idea che cambiamenti significativi hanno bisogno di molto tempo per prodursi. Il concetto di psicoterapia breve, che pure capisco e di cui vedo l’utilità in certi ambiti, è in contraddizione con il principio aureo dell’analisi, che è paradossalmente di rinunciare a voler guarire, a voler capire e a voler ricordare. Allo stesso modo l’idea sacrificale che si debba far fatica – cosa che è inevitabile soprattutto rispetto a situazioni gravi – è in contraddizione con un altro principio: che l’analisi dovrebbe se possibile anche essere piacevole, (seriamente) giocosa, vitale. Un paziente dovrebbe aver voglia di tornare la volta dopo.

Il costo elevato di un lungo percorso analitico ha spinto molti a orientarsi verso le cosiddette analisi brevi, ma può esistere un’analisi breve?

Anche una singola frase detta da un amico al momento giusto ti può salvare. Tuttavia l’esperienza insegna che di ‘breve’ nel campo della sofferenza psichica non c’è niente. L’analisi inizia proprio dove tutte le altre forme di psicoterapia mostrano i loro limiti. È insensato pensare di modificare aspetti strutturali profondi di una persona, che durano letteralmente da una vita, con precetti, consigli, rassicurazioni, esercizi, spiegazioni, schemini – tutte cose utili all’occorrenza, ma che non incidono veramente. Il lavoro dell’analisi ha a che fare con la costruzione intersoggettiva e in gran parte ‘estetica’ (nel senso di sensazioni, ritmi, intercorporeità, emozioni) dello psiche-soma. Per lo stesso motivo è cambiato enormemente, anche se non per tutti, il modo in cui viene concepita l’interpretazione: non più come l’espressione di un sapere dell’analista sul paziente, ma come un’offerta pluridimensionale di senso per dar vita con il paziente a idee, emozioni e affetti nuovi. Non passare contenuti preconfezionati ma sviluppare funzioni. La buona interpretazione non si presenta più con il fiocchetto. È ‘buona’ se riflette la qualità dell’ascolto dell’analista, la sua ricettività all’inconscio. Sul piano manifesto una buona interpretazione può essere un’interiezione, un gesto, un silenzio, un commento banale, ecc. E invece il modo classico di mettere assieme transfert, nevrosi infantile, trauma ecc. a volte può essere solo un vistoso segno della sordità di un analista tragicamente incapace di ascoltare l’inconscio a 360 gradi; e sarebbe come un chirurgo che non sa usare il bisturi.

L’analisi è un cammino di libertà. Le piace questa definizione o è incompleta?

L’analisi si può definire in tanti modi: diventare ciò che si è, eliminare o imparare a gestire la propria sofferenza psichica, vivere una vita autentica, cercare di essere il più possibile liberi, e così via. Ogni definizione non annulla le altre ma coglie un aspetto parziale. Le uniche che non mi convincono sono quelle che la vedono come un percorso iniziatico o di illuminazione. In realtà secondo la mia esperienza non c’è nessuno che intraprenda un’analisi se non ha seri motivi di sofferenza e se altre soluzioni non hanno già fallito.

Qual è il rischio che si cela dietro l’angolo dell’analista?

Non so bene come interpretare questa domanda. Se per rischio intendiamo il fatto specifico per sé e per gli altri di essere un analista, direi, nel primo caso: di fare un mestiere che lo chiude troppo in uno studio, per quanto non sia mai solo; se non formato adeguatamente (cosa che non dovrebbe mai smettere di fare) di bruciarsi per un eccesso di contatto con la sofferenza psichica; di lavorare troppo; di diventare un burocrate o un prete della psicoanalisi; dal lato del rischio per il paziente vale la stessa lista, nel senso che se non trova un analista che sa rimanere curioso, vitale, umano, è difficile che ricavi qualcosa di buono dall’esperienza della sua analisi.

Per Thomas Ogden ci vogliono due persone per pensare, ma sono davvero soltanto due le persone che si incontrano durante la seduta?

Assolutamente no. Come sappiamo, l’io è una finzione. Ciascuno di noi si porta dentro tante persone. Parliamo sempre con qualcuno anche quando siamo soli; e se siamo in due stiamo comunque parlando virtualmente con tutti i membri della comunità cui apparteniamo. Anzi si potrebbe dire che attraverso il medium comune del linguaggio essi parlano in noi e attraverso di noi. Il dialogo è la struttura stessa del linguaggio e di conseguenza della mente. La nostra è sicuramente una ‘mente linguistica’. Non c’è pensiero senza linguaggio.

La sfera della sessualità è sempre al centro dell’analisi o c’è altro?

La sfera intima della sessualità riveste un’ovvia importanza nelle relazioni tra le persone, e dunque anche in analisi, ma non è più centrale (molti la pensano diversamente). Non è importante l’indagine dell’analista sulla sessualità del paziente, sul suo sviluppo psicoaffettivo in un’ottica ‘obiettivante’. È più importante come dall’incontro con l’altro (con gli altri) un individuo sviluppa la capacità di digerire o trasformare o contenere le emozioni violente da cui è investito. Queste possono avere o no a che fare con la sessualità. Inoltre, anche quando si parla di sessualità, nel teatro dell’analisi qualsiasi cosa si dovrebbe ascoltare nella sua valenza inconscia, di ‘finzione’, comunicativa rispetto al qui e ora, e non reificarla in un dato o fatto concreto o meramente storico.