Adriana Cavarero

Adriana Cavarero, la filosofia sensata

Davide D'Alessandro

Intervista alla nota studiosa di Arendt e Platone, figura di rilievo del pensiero della differenza sessuale. Al centro della sua opera “non c’è la ricerca della verità, ma ‘l’appetito di significato’, ovvero il desiderio di ‘dire’ il senso del nostro vivere ordinario e del nostro agire insieme”

Che cosa le resta addosso del suo lungo rapporto intrattenuto con Platone?

Il grande piacere che resta addosso a chiunque sappia godere dell’infinito trattenimento che i grandi capolavori della filosofia e della letteratura sanno dare.

Concorda con chi ha sostenuto che tutta la storia della filosofia occidentale non è che una nota a margine dei testi di Platone?

Concordo. Platone rappresenta il momento inaugurale, fondativo della filosofia. Inventa la filosofia come disciplina, ne decide il linguaggio, disegna le sue trame concettuali e, allo stesso tempo, ne fissa il territorio, i margini, il bordo, lo stile. In lui la filosofia si mostra nella fase in cui nasce e prende forma come nuova disciplina del logos. Quella di Platone è quindi una filosofia ancora in fase sperimentale, un nuovo genere di logos che, mentre si costruisce nella sua consapevole novità, intrattiene tuttavia un rapporto essenziale con il vecchio e diverso genere di logos dal quale si distacca e prende a poco a poco commiato, ossia l’epica, la narrazione, il mondo dell’oralità. Il dialogo, che è la forma scritta più vicina all’oralità - quasi una sua mimesi - è appunto una traccia esplicita di questo lungo, polemico e drammatico commiato. Così come lo è ovviamente il mito. Platone usa e inventa miti: la sua filosofia non è ancora il lucido sistema del concetto. Il linguaggio dei suoi testi è, sì, già tecnico, specifico, specialistico, ma non è ancora puro, è ancora immerso nella fantasmagoria della narrazione e, soprattutto, lascia trasparire lo sforzo di differenziarsi e distaccarsi da questa fantasmagoria. Quello di Platone è un logos filosofico che descrive le doglie del suo parto – come Platone stesso dice nel Simposio! – ovvero un logos che più che individuare e definire i suoi problemi, farsi identificazione e ‘trattato’ di essi, descrive il travaglio creativo del loro nascere.

È possibile uscire dal territorio di Platone?

Più che uscire, si può appunto lavorare ai margini, divaricare e forzare i punti ambigui della costruzione platonica. Rubare figure, idee, concetti alla tessitura ancora sperimentale del testo. Non si tratta tanto di ‘superare’ la metafisica, come spesso si dice sbrigativamente. Si tratta piuttosto di tornare al luogo dell’esercizio fondativo del discorso platonico e decodificare gli snodi della fondazione stessa per, eventualmente, risignificarli. Alcuni di questi snodi sono infatti palesemente irrisolti, allacciati ambiguamente, malamente. Basti pensare alla chora del Timeo, rispetto alla quale Platone stesso denuncia il ricorso a un discorso bastardo, ovvero all’impossibile impresa di dire l’indicibile e concettualizzare l’inconcettualizzabile. La chora, com’è noto, è definita da lui ‘madre’ e ‘matrice’. L’immagine del femminile è uno dei grandi problemi con cui Platone non riesce a fare i conti (essendo al contempo tanto onesto da ammettere di non riuscirci). La filosofia successiva avrà raramente questa onestà.

Nascere a Bra piuttosto che in un altro luogo imprime delle differenze. La fanciulla Cavarero quando ha iniziato a pensare alla filosofia?

Sono nata nelle Langhe, le terre del vino, le terre cantate da Pavese e Fenoglio, ma sono cresciuta nell’industriale e colta Torino. Sono una contadina inurbata. L’incontro con Platone o, meglio, con la figura di Socrate,  è stato, al liceo, un colpo di fulmine. Mi è rimasta una memoria imperitura – una ‘passio impressa’ – della potenza del personaggio di Socrate su una mente adolescente. L’ho metodologicamente sfruttata durante tutti i miei anni d’insegnamento all’università di Verona e anche all’estero, negli Stati Uniti. La mia strategia consiste nel sedermi in cattedra e, senza frapporre indugi, leggere alcune pagine dell’Apologia di Socrate e del Fedone, là dove il filosofo si congeda dagli amici, beve la cicuta e muore. In genere, gli studenti si commuovono e piangono. Non si potrà mai sottolineare abbastanza la forza drammatica e la qualità letteraria di queste e altre pagine di Platone. Il suo logos, appunto, non è freddamente speculativo, è ancora narrativo, capace di suscitare pathos. Dopo, quando si è assaporato il testo platonico, leggere Aristotele diventa una specie di noia. Lo slancio è perduto, il sistema si è chiuso, pur nella ricchezza dello sguardo multidisciplinare nel quale Aristotele notoriamente eccelle. Devo confessare che il mio amore per Platone è strettamente collegato al mio amore per Omero, i tragici e il mondo greco in generale. La partita fra Platone e Omero, fra la filosofia e l’epica, fra il primato della teoresi e il piacere delle storie, è secondo me la grande partita da cui sgorga il destino di quello che chiamiamo – forse troppo superficialmente - Occidente.

Esiste la filosofia o esistono tante filosofie?

Esiste la filosofia come una determinata forma di sapere di cui Platone, per primo, disegna i contenuti e i bordi; ma ovviamente questo sapere, nel suo sviluppo storico, si dà in molti stili e diverse varianti. Come già al suo inizio, la filosofia risponde al tempo e all’epoca. E, naturalmente, come ogni disciplina ma forse più di ogni disciplina, risponde alla sua storia interna, al lascito dei suoi problemi irrisolti. Anche la sua tendenza a ricominciare sempre da capo, si configura come una ripetizione della sua costitutiva (e originaria) necessità di fare i conti con il problema dell’inizio. Le filosofie che contestano questo bisogno dell’inizio, questa urgenza del fondamento, non fanno altro che rovesciare il quadro con una mossa strategica che però non lo rompe, anzi, lo conferma.

Studiare Arendt ed essere una figura di rilievo del pensiero della differenza sessuale: la prima non può escludere l’altra?

Ho incontrato i testi di Arendt come interprete di Platone, quando studiavo all’università di Padova. Notoriamente Arendt è un’interprete originale, anomala, coraggiosa, maestra di uno stile libero, spregiudicato, creativo. Nel frattempo stavo già timidamente lavorando sul grande nodo irrisolto del discorso platonico sulla differenza sessuale, ossia sulla chora e altre rappresentazioni (a volte misogine, a volte equalitariste) del femminile sulle quali Platone indugia e tesse contraddizioni. A ciò si aggiunga che il gesto teorico arendtiano di fondare il pensiero politico sulla categoria di ‘nascita’, in contrapposizione alla centralità della categoria di ‘morte’ nella tradizione filosofica, non può che risultare cruciale per un approccio innovativo alla questione della differenza sessuale. Dopo tutto, la nascita, il mettere al mondo, rientra tra le mansioni tradizionali delle donne. Da Arendt ho imparato inoltre a criticare il soggetto moderno dell’ontologia individualista, astratto e pretestuosamente neutro-universale, e a insistere invece sulla concretezza di una soggettività incarnata e relazionale, per dirla in termini arendtiani, sull’unicità di ogni essere umano nella pluralità che li caratterizza e che trova la sua massima espressione nell’agire di concerto degli unici in uno spazio condiviso. Uscirà in ottobre per i tipi di Raffaello Cortina un libro nel quale riprendo queste tematiche schiettamente arendtiane per riflettere sul fenomeno di una ‘democrazia sorgiva’, ossia sulla fase partecipativa e creativa, entusiasmante e non violenta, di quell’esperienza politica dell’agire insieme che sta alla base della nostra idea basilare di democrazia.

Che cosa intende quando dice che il suo interesse è praticare una filosofia sensata?

Intendo una filosofia che rinuncia al cielo perfetto dell’astrazione e si cala fra noi, cercando di restituire senso alla nostra esperienza quotidiana. Una filosofia che innanzitutto rende conto della nostra vulnerabilità e del nostro essere creature incarnate in relazione le une con le altre. Al centro di questa filosofia non c’è la ricerca della verità, comunque la si intenda, bensì ‘l’appetito di significato’, ovvero il desiderio di ‘dire’ il senso del nostro vivere ordinario e del nostro agire insieme.

Ha insegnato in Italia e in America. Le differenze sono davvero abissali?

Quando  si insegna negli Usa, in genere, si percepisce immediatamente la migliore preparazione di base degli studenti italiani. Checché ne dica una stolta propaganda, il liceo italiano è buono, dà basi storiche e culturali preziose. Gli studenti americani però sono più disposti a lavorare seriamente per imparare, a impegnarsi assiduamente nello studio, perché pagano rette universitarie altissime. Fallire in un esame, per loro, significa rimetterci un sacco di soldi. Inoltre, com’è tipico della mentalità statunitense, gli studenti sono là molto competitivi, vogliono eccellere per assicurarsi una buona posizione nella ‘ corsa al successo’ del loro futuro. Per quanto riguarda gli studenti universitari italiani, ho invece osservato che alcuni, presi da genuina passione o personale talento, si impegnano seriamente e si rivelano bravissimi, ma molti altri vivacchiano perché sono convinti che andare fuori corso e prender voti mediocri agli esami, oltre a costare ben poco, non crei socialmente un gran danno. Quanto ai professori, negli USA, se insegni male e gli studenti ti giudicano impreparato, ti licenziano. Le università americane, in competizione fra loro, pagano bene i docenti e vogliono il meglio.

Perché i filosofi tendono a criticare il presente senza riuscire a indicare una prospettiva e una speranza di futuro?

Non credo di far parte di questa tendenza. Non sottovaluto la critica del presente, anzi, la ritengo necessaria, salutare. Tuttavia - come spesso notano i miei lettori e le mie lettrici - la mia riflessione è caratterizzata  da una notevole vena utopica, dal tentativo di costruire paradigmi di pensiero affermativo e persino creativo, dalla ricerca di temi che possano riconfigurare il quadro simbolico di un ordine alternativo. Insomma, uso strategicamente l’arma della decostruzione ma insisto più volentieri sull’azzardo della costruzione. Del resto, il mio riferimento ideale, quando scrivo, sono le giovani generazioni, ovvero, arendtianamente, la loro capacità di essere un nuovo inizio, di pensare e abitare diversamente il tempo futuro, di immaginare l’impossibile e, soprattutto, l’inaspettato.

Ogni volta che una donna assurge a eroina, si scomoda il nome di Antigone. Quanto è importante questa figura e che cosa continua a dirci?

Antigone è un personaggio straordinario e, come si sa, la sua storia è la storia delle sue infinite interpretazioni. In lei è comunque inevitabile vedere il modello della donna indomabile, inaddomesticata e inaddomesticabile. Ciò è ovviamente prezioso rispetto alla perdurante tradizione di quella che Luce Irigaray chiama ‘economia binaria’, ossia un’economia, un ordine simbolico, che colloca le donne in un ruolo domestico e subalterno, definendolo come ‘naturale’. Antigone non si piega, si oppone, resiste, agisce in modo anomalo rispetto al comportamento che ci si aspetterebbe da una donna. Spezza i canoni dell’ordine patriarcale. Suggerisce che esiste un’immagine alternativa del femminile che questo ordine non riesce a contenere e a controllare. Così fa del resto anche il tremendo personaggio di Medea. La tragedia greca è un’enorme risorsa di figure alternative agli stereotipi del femminile, diciamo, un tesoro inesauribile per l’immaginario.

Dove conduce la politica della corporeità?

La politica della corporeità mette semplicemente in risalto il nostro essere unicità incarnate, non soggetti astratti de-corporeizzati e neutro-universali. Si tratta, di nuovo, di restituire senso all’esperienza ordinaria o, se si vuole, di contrastare il gesto platonico di relegare il corpo a provvisorio involucro carnale, celebre ‘tomba’ dell’anima. Come pensare la nascita, la vita, la maternità senza corpo?

Perché Diotima la inquieta?                                                                                                       

La Diotima del Simposio, che presta la sua voce alla dottrina di Platone sulla via erotica alla verità, più che inquietare me, inquieta il testo platonico perché mostra come il filosofo debba inscenare un’appropriazione mimetica della maternità per giustificare la sua teoria dell’anima filosofica che partorisce i logoi veri. L’ho già detto e lo ripeto: ci sono snodi irrisolti nella speculazione platonica e le sue immagini del femminile ne sono il  sintomo più palese e interessante.

L’inclinazione ci spinge a uscire fuori dall’Io, dice Arendt. Che cosa trova l’Io fuori di sé?

Intuisco che lei si riferisce al mio libro Inclinazioni. Critica della rettitudine. Nel libro sostengo che, più che trovare qualcosa fuori di sé, più che trovare l’altro, l’io inclinato scopre di dipendere da sempre e ontologicamente da altri, ovvero scopre che l‘idea di un io autonomo, verticalmente fondato su se stesso, non è altro che un arrogante e clamoroso abbaglio filosofico. Ciascun essere umano è costituito dalla relazione ad altri e, del resto, nasce e cresce perché qualcuno, inclinandosi su di lui sin dall’infanzia, se ne prende cura. L’inclinazione, in questo senso, è una postura etica fondamentale. È il segno, come direbbe Lévinas, di un originario essere-per-l’altro che definisce la struttura basilare dell’umano.  Il segno, aggiungo io, di un significato post-patriarcale dell’inclinazione materna, non semplice abnegazione o tendenza ‘naturale’  e destinale femminile, bensì modulo per un ripensamento radicale dell’ontologia e dell’etica.

Alla politica mancano le donne o il pensiero politico delle donne?

Il discorso è molto complicato. Per semplificare potrei dire che la politica è storicamente modellata sul soggetto maschile, che riserva a sé stesso l’ambito dei poteri e dei saperi, sostanzialmente l’ambito del comando, collocando le donne nell’ambito domestico e della cura dei corpi. Nell’immaginario politico tradizionale le donne sono assenti. Sono un’anomalia se non una bizzarria. Un discorso diverso va invece fatto per il pensiero politico femminile, che parte da altri presupposti ed elabora un diverso immaginario. Non esiste ovviamente un pensiero politico femminile monolitico. Esistono molti modi in cui diverse pensatrici, ispirate a diverse teorie e molteplici contesti storici e concreti, pratici e operativi, hanno ripensato la politica riformulandone gli scopi e i concetti. Personalmente mi riconosco in quell’ampia e, del resto, variegata corrente che ripensa l’azione politica come relazione in atto fra soggettività incarnate. Ne parlo appunto nel mio prossimo libro sulla Democrazia sorgiva. (Un libro molto arendtiano! devo confessarlo, ma anche un libro che dialoga con una delle più interessanti filosofe americane contemporanee: Judith Butler).

Se dovesse riassumere in poche righe l’incantevole Tu che mi guardi, tu che mi racconti, cosa direbbe?

È un libro nel quale mi concentro sul tema della narrazione e, più precisamente, sul tema della storia di vita intesa come biografia e non come autobiografia. La tesi di fondo è che esista in noi il desiderio che la nostra vita sia narrabile come una storia che ha senso, una storia senza la quale la vita rischierebbe di apparire come una incomprensibile serie di eventi. Si tratta appunto di un desiderio, di un bisogno di senso che mette in luce la presenza di un sé narrabile in cerca della sua storia. Tale desiderio può facilmente sfociare in una pulsione autobiografica, nell’intento di raccontare di sé, affidarsi alla memoria personale per darsi un senso. L’autobiografia è tuttavia notoriamente narcisistica e fallace, perché presuppone che spetti al soggetto singolare di sapere - e perciò di poter raccontare - chi è. Come sottolinea Hannah Arendt, chi io sono o, se si vuole, chi io appaio lo sa tuttavia solo l’altro a cui appaio. L’autobiografia rimane presa nella morsa del narcisismo e dell’autoreferenzialità, mentre la biografia, postulando la necessità di un narratore che sia altri, conferma la soggettività relazionale, esposta e costituita dagli altri che noi siamo e da cui la singolarità della nostra esistenza prende senso. Detto con una formula, anche nel caso del sé narrabile, l’altro si presenta come indispensabile.

Che cosa sente di dover ancora narrare la sua voce?

Come lei sa, io prendo il tema della voce molto sul serio. Nel mio libro A più voci. Fenomenologia dell’espressione vocale ho riflettuto sull’emarginazione della componente vocale del logos nella tradizione filosofica occidentale e ho concluso che la storia della filosofia è la storia di una de-vocalizzazione del logos. Il semantico canta vittoria riducendo il vocalico a servile strumento, ad accessorio sonoro. Le conseguenze non sono di poco conto perché, nella parola parlata, il semantico rappresenta il livello generale, ovvero l’elemento universalizzante, mentre il vocalico esprime quell’unicità incarnata che caratterizza notoriamente ogni voce in quanto distinta da ogni altra. Insomma, nel parlare, la voce è precisamente quell’elemento fondamentale del logos in cui le unicità relazionali si comunicano, così come la musica di ogni lingua è ciò in cui le lingue si comunicano comunicando al contempo la loro diversità. Sono contenta perché l’edizione inglese del libro ha avuto molto successo e viene tuttora utilizzata come testo base in molti atenei stranieri, in settori che vanno dagli studi musicali alla linguistica e alla critical theory. In Italia il libro è invece esaurito da tempo e ricevo continuamente richieste da studiosi, musicologi, attori e cantanti che me ne chiedono una copia. Purtroppo ne ho una copia sola, per di più tutta annotata e scarabocchiata da me. Comunque l’interesse che la mia tesi ha suscitato e gli ormai innumerevoli testi che a esso continuano a fare riferimento, mi incoraggiano a procedere nella mia riflessione sulla voce. Sto anche lavorando su questo, attualmente, soprattutto nella direzione di un confronto fra la voce della pluralità e la voce della massa, ossia nella direzione di una decisa politicizzazione del tema della vocalità.

Ha scritto anche su Non uccidere, che ha inevitabilmente a che fare con la violenza. È il più complesso dei comandamenti?

“Non uccidere” è il comandamento più trasgredito! Una lunga e accreditata tradizione ci assicura infatti che è lecito uccidere in determinate circostanze, per esempio, in guerra o per legittima difesa (per non parlare della pena di morte!). Bisognerebbe invece, con Lévinas, prendere il comandamento come assoluto, inderogabile, e intenderlo come “non uccidere mai”.  Ossia bisognerebbe pensare in modo radicale la non violenza, negando che la violenza, l’aggressività verso l’altro, sia un elemento costitutivo dell’umano, una specie di costante antropologica che, del resto, la psicoanalisi e le scienze sociali non si stancano di giustificare e rafforzare. Ci vuole appunto una vena utopica, il coraggio di immaginare un’etica alternativa, di riconcettualizzare l’umano come quell’essere vulnerabile la cui feribilità, il cui vulnus, non rimanda al colpo inferto all’altro bensì alla cura dell’altro. Non sono la sola a ritenere che ci sia una complicità speculativa fra l’ideologia patriarcale del guerriero e la teorizzazione della naturale aggressività dell’uomo. Anche in questo caso, la prospettiva della differenza sessuale apre orizzonti di senso interessanti e politicamente molto produttivi.

Per meditare sulla fragilità e la vulnerabilità dell’umano consiglia la Bibbia o un altro libro?

Consiglio la Bibbia, la tragedia greca e una certa corrente minoritaria del pensiero ebraico (Rosenzweig, Benjamin, Lévinas, Arendt).

Che vuole una donna? Freud non ha saputo rispondere. Provi lei…

Cosa vuole una donna non lo so, anche perché cerco di evitare le generalizzazioni e le universalizzazioni. Evito di fare della donna un’essenza. Direttamente o attraverso i loro testi, conosco però molte donne che non si accontentano di impegnarsi nel processo storico di liberazione – di emancipazione – bensì osano immaginare un diverso concetto di libertà e di praticarla nelle loro politiche. Detto in parole semplici, donne che non si limitano a mettere in essere una critica al patriarcato (al sessismo e alla discriminazione di genere) ma pensano che sia ancor più importante concepire l’umano nei termini di una soggettività incarnata, relazionale e libera di interagire proprio all’interno di questa relazionalità pacifica costitutiva. Forse ci sono più possibilità di riconfigurare il senso del mondo di quante la tradizione filosofica, a partire da Platone, abbia saputo immaginare.