L'affaire Boschi e l'inesistente (o quasi) conflitto di interessi - Parte seconda

Carlo Torino

La tesi surreale di un conflitto di interessi che avrebbe dovuto, nell'interpretazione giansenistica di alcuni, impedire a un ministro della Repubblica perfino di pronunciare la parola "banca". Una questione inesistente, e le ridicole insinuazioni che ignorano il ruolo e la presenza inderogabili di Bankitalia e del Meccanismo di vigilanza europeo.  

Ho ricevuto molte domande di chiarimenti sulla questione dell’affaire Boschi, e in modo particolare sul conflitto di interessi il quale secondo la rigida interpretazione di taluni avrebbe dovuto vietare alla sottosegretaria persino di parlare, di fare un qualsivoglia riferimento (ironico, o dovrei forse dire autoironico, magari) su Banca Etruria. Vediamo di chiarirci. 

La ministra non mi pare fosse allora investita di alcuna “delega” ufficiale da palazzo Chigi in materia bancaria. Non credo fosse, per competenze, la persona giusta a svolgere questo ruolo. E per di più gravava su di lei l’oscura ombra del conflitto di interessi.

Nell’incontro oggetto della ricostruzione di FdB - per il quale peraltro nutro grande stima -, esauriti i convenevoli e i riferimenti ai sublimi esercizi venatori di Ghizzoni - uomo che ama la campagna, e la campagna ama lui -; e forse anche, oseremmo immaginare, qualche complimento da parte del gentiluomo nei confronti di quel meraviglioso sorriso di diamante della ministra - quasi direi cinquecentesco nella sua grazia. Di che cosa, dicevamo, avrebbero dovuto parlare terminati gli esercizi retorici e le imposizioni del codice cavalleresco? 

Ed è proprio questo l’elemento fondamentale di qualsiasi nostra presa di posizione. Di che cosa hanno parlato? Che cosa ha chiesto Maria Elena Boschi a Federico Ghizzoni. Se i due si fossero esclusivamente limitati a qualche riferimento fuggevole, come sovente avviene fra politici e banchieri, non v’è nulla di scandaloso e la questione non esiste. La ministra sebbene in una posizione scomoda per via del conflitto di interessi intrecciato al ruolo di suo padre nella vicenda, non per questo era interdetta dal poter commentare sugli eventi, o dal sollecitare l’opinione del primo banchiere del paese. Tutto questo non è propriamente “occuparsi di Banca Etruria”. 

Delle sorti dell’istituto se n’è propriamente occupata la Banca d’Italia, che a seguito di un ciclo ispettivo iniziato nel 2012, ne aveva già commissariati i vertici e sospinto verso soluzioni aggregative - con la Popolare di Vicenza, per esempio – poi sfumate. Nel 2015 la situazione di irreversibile dissesto dell’istituto era di dominio pubblico. Chi scrive, avendo ricoperto incarichi in banche d’affari, può confermare che il mercato era perfettamente a conoscenza della situazione ben prima del 2015: come lo erano tutti i giornalisti che si occupano di questioni bancarie. È ridicolo poter pensare che la ministra si fosse spinta - nel 2015 - fino ad esercitare “pressioni” per un’acquisizione che avrebbe potuto avere un senso per Unicredit solo dopo una preventiva svalutazione delle partite deteriorate, e dunque di una completa erosione del valore delle azioni della banca. Peraltro il Meccanismo unico di vigilanza europeo, sebbene non fosse ancora entrata in vigore la normativa Brrd, ne osservava con attenzione gli sviluppi.

Di che pressioni di parliamo dunque? Qualsiasi soluzione sarebbe dovuta passare sotto la spessa lente della Banca d’Italia e di Francoforte. Ed era già allora inconcepibile poter credere che Unicredit potesse intervenire attraverso un piano favorevole ai soci di Banca Etruria: peraltro già in amministrazione straordinaria.

Quale potere avrebbe potuto esercitare la ministra in tali condizioni? Quali ragionevoli (o irragionevoli) richieste avrebbe mai potuto avanzare? Sarebbe stato quanto meno singolare.

La risoluzione dell’istituto non tardò, una volta preso atto dell’irreversibilità della crisi patrimoniale, nel novembre del 2015. Un intervento perfettamente coerente con la normativa europea sugli aiuti di Stato, e senza gravare minimamente sul bilancio pubblico.

Ecco il carattere surreale di questa vicenda, indebitamente gonfiata dall’onda di un certo voyeurismo giornalistico dominante; e dalla volontà evidente di strumentalizzare in elementi di lotta politica questioni che non hanno alcun ragionevole presupposto logico.