Lionel Messi (foto LaPresse)

Almeno ora che Messi lascia la Nazionale basta paragoni con CR7

Francesco Caremani

Le due stelle sono tanto diverse quanto strabilianti. Ma in fondo, nel genio fragile di Lionel così come nella leadership arrogante di Ronaldo, si specchiano i due volti del calcio che fa innamorare.

 

Messi o CR7? Pelé o Maradona? Cruijff o Di Stefano? Chiedere di scegliere fra i campioni è un po’ come chiedere a chi vogliamo più bene, al babbo o alla mamma? Così, mentre gli amici-nemici (non sapremo mai cosa pensano veramente l’uno dell’altro) Lionel e Cristiano sono lontani decine di migliaia di chilometri si ripropone l’eterna sfida a distanza tra i due giocatori più forti, vincenti e mediaticamente esposti di questa nostra epoca. Strabilianti con Barcellona e Real Madrid, molto meno con le rispettive nazionali. CR7 ha perso in casa la finale di Euro 2004 contro la Grecia, un lutto sportivo facile da metabolizzare perché il portoghese era giovane e le responsabilità gravavano su un’altra generazione di compagni di squadra, aveva tutta la vita davanti. Oggi le cose sono cambiate e pare chiaro che questo Europeo è l’ultima vera chance per regalare una gioia immensa al suo popolo e a se stesso, visto quanto si arrabbia in campo per ogni passaggio sbagliato dagli altri o per i gol subiti quando lui col suo tacco sta cercando di tessere calcio.

 

 

A Lionel Messi, invece, è stato chiesto, come si usa in Argentina, di prendere la Nazionale e portarla sul tetto del mondo, secondo l’imprinting maradoniano. In Brasile, ai Mondiali di due anni fa, l’occasione era ghiotta: vincere in casa dei nemici per eccellenza, la Germania, ma Higuain si mangiò mangiato il gol partita e Götze si inventò quello iridato. Una grande delusione acuita dalle due finali di Copa America perse consecutivamente contro il Cile ai rigori. Tre finali in tre anni senza segnare nemmeno un gol, per Messi, senza poter esprimere tutta quella forza, quella bellezza, quella potenza che ammiriamo durante la stagione. Troppe responsabilità? Forse, tanto da spingere Messi a chiamarsi fuori dal giro dell’Albiceleste, lasciando ad altri il testimone di una generazione formidabile ma sconfitta, la metafora di un Sessantotto calcistico. Nel 2005 ha vinto il Mondiale Under 20 in Olanda, nel 2008 la medaglia d’oro olimpica a Pechino. Tra Mondiali e Copa America invece le finali perse ora sono quattro. Sul perché di queste mancate vittorie si faranno seminari e workshop, ma il vero titolo della sua carriera potrebbe essere “La tristezza della pulce” contro “L’eleganza del riccio”, ovvero CR7.

 

L’idea è che, nel Barcellona, Messi sia parte di un ingranaggio perfetto che sa esaltare il suo talento e che, viceversa, risplende sotto la luce delle sue giocate. Ma il tutto senza leadership e senza responsabilità, caratteristiche che nel tempo sono state di Xavi e Iniesta, cervelli e comandanti di una squadra che passerà alla storia, anzi ci è già passata, come capita a pochi grandi. Cosa sarebbe allora Messi senza il Barça? Difficile dirlo, così come è difficile dire cosa sarebbero i catalani senza l’asso argentino. Sono destini inseparabili, una storia unica, all’interno della quale però il suo volto, la sua immagine, non saranno mai più grandi dello stemma del club (“Més que un club”). Ed è qui che si vedono le prime grandi differenze tra i due fuoriclasse. Cristiano Ronaldo è innanzi tutto CR7, lo era al Manchester United, lo è ancora di più al Real Madrid delle stelle, nessuno grande quanto lui, e se il simbolo delle Merengues si abbronza al riverbero delle undici Coppe dei Campioni/Champions League, Cristiano Ronaldo non ne subisce mai l’ombra, anzi è più facile che la faccia.

 


(foto LaPresse)


 

A livello di club, così come individualmente, entrambi hanno vinto tutto quello che potevano vincere, contare i trofei è quasi imbarazzante. Sembra di accostare Nadal e Federer, Coppi e Bartali, Valentino Rossi e… Valentino Rossi, e come spesso accade esistono due partiti, due tifoserie, quella pro Messi e quella pro Ronaldo. CR7 difetta di simpatia, ha un procuratore ingombrante e chiacchierato, Jorge Mendes, ha un figlio ma la madre è rimasta anonima (si è parlato di utero in affitto), quasi androgino nel mood di atleta e quando segna esulta contro i tifosi avversari come il torero che ha appena infilzato il toro. Messi è il ragazzo della porta accanto, quello bravo, che ti porterebbe la spesa a casa, ha due figli, una compagna e una tristezza di fondo che tanti nel tempo hanno cercato d’interpretare. Qualcuno ha parlato persino di autismo, mettendo sulla difensiva il campione argentino, facendo arrabbiare la famiglia e chi seriamente, ogni giorno, si alza e deve lottare per i propri figli colpiti da questa patologia. Empaticamente non c’è storia e forse CR7 ci soffre un po’. Così come è successo quando, pochi giorni fa, ha strappato il microfono a un giornalista che gli stava rivolgendo una domanda su Messi e l’ha gettato via. A volte pare un’inimicizia creata ad arte sul filo Madrid-Barcellona, Castiglia-Catalogna, governo centrale-indipendentismo, che poco o niente hanno a che vedere con la vita, difficilmente privata, di questi due trentenni. Amati e odiati per il loro successo, le loro donne, vere o presunte, i loro soldi, rinfacciati a ogni pallone perso, a ogni gol mancato: un oppio delle masse tagliato male.

 

Di sicuro, però, CR7 è più leader di Messi: lo è in allenamento, lo è quando torna in difesa a dare una mano alla squadra, lo è quando rimprovera i compagni o gioisce con loro, l’unico che non viene mai messo in discussione qualunque sia il suo stato di forma fisica e psicologica. Eppure, nelle finali, qualcosa ha steccato anche lui. Nella Champions del 2008 segna la rete che porta in vantaggio il Manchester United ma sbaglia il terzo rigore che poteva essere decisivo; nel 2014 col Real Madrid sigla l’inutile 4-1 al 120’ (su rigore). A Milano ha segnato quello decisivo per conquistare l’undicesima, dopo una partita scorbutica e giocata male, lui era lì a prendersi tutte le responsabilità, tirando il penalty più pesante e segnandolo per poter dire: “Ragazzi, avete visto, vi ho fatto vincere pure questa”. Ma Ronalfo è anche uno dei pochissimi calciatori senza tatuaggi che, dice, gli impedirebbero di donare il sangue.

 

Secondo Forbes, Lionel e Cristiano sono i due atleti più ricchi del pianeta: 88 milioni di dollari il portoghese, 81,4 l’argentino, più di LeBron James e Roger Federer. Troppo spesso si dimentica però che dietro numeri, trofei, donne, sorrisi e lacrime ci sono due ragazzi di trent’anni, talentuosi e fortunati che ci hanno fatto divertire, gioire, godere e lo faranno ancora. Ragazzi che il calcio innalza al ruolo di semidei e che come tali sono trattati, riversando su di loro tutte le preghiere e le imprecazioni legate al tifo e alla passione. Lionel nei confronti di CR7 appare più fragile, con una storia familiare e calcistica diversa. Il primo è campione quasi per caso, come se si fosse ritrovato lì nell’Olimpo senza sapere come; il secondo invece a suo agio nello scranno più alto, frutto di un’ascesa concepita e desiderata fino all’ultima stilla di sudore. Anche per questo, forse, CR7 è più leader, non per questo è più uomo. A dirla tutta, Messi fuori dall’Argentina non ci mancherà, perché di fatto è col Barcellona che l’abbiamo conosciuto in tutti questi anni come fosse una divisa aziendale. Forse non mancherà nemmeno agli argentini che continueranno ad adorare Maradona. Ma non chiedete, per favore, chi è il più forte di tutti i tempi.