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Il nuovo Grande Gioco

Le liberaldemocrazie disunite contro l'asse delle autocrazie. Il libro di Vernetti

Francesco Chiamulera

Nel nuovo saggio dello scrittore e giornalista italiano, "Il nuovo grande gioco", le prime non riescono a comprendere la natura condivisa della sfida (di sopravvivenza), mentre le seconde rinsaldano le alleanze e sembrano molto consapevoli del fronte unico

Da Murmansk a Helsinki, da Kyiv a Pokrovsk, dalla Bielorussia all’Iran, da Taipei alle Coree, una nuova cortina di ferro è scesa attraverso il continente. “E’ vero, Gloucester, siamo in gran pericolo; perciò tanto più grande dovrà essere in tutti noi il coraggio”, così dice Enrico V nel dramma shakespeariano. Gianni Vernetti lo cita parlando di Taiwan di oggi: ma si capisce però che il significato va oltre la capitale dei semiconduttori minacciata da Pechino. Siamo nel secondo capitolo del nuovo libro di Vernetti, “Il nuovo grande gioco” (Solferino): è il maggio 2024 e l’autore, che è stato viceministro degli Esteri, assiste alla cerimonia di insediamento del nuovo presidente della Cina libera, Lai Ching-te. La celebrazione a Taipei si è svolta con misure di sicurezza eccezionali, sotto la minaccia di decine di migliaia di attacchi hacker cinesi. E’ l’innesco per un viaggio che Vernetti fa lungo quella che identifica come la nuova Cortina di ferro, con tanto di mappe geopolitiche (la versione buona di quelle di Limes) per riflettere sul grande, enorme problema del nostro momento storico: le autocrazie, dalla Russia all’Iran, dalla Cina alla Bielorussia, dalla Corea del nord al Venezuela, rinsaldano le alleanze e sembrano molto consapevoli del fronte unico, mentre le liberaldemocrazie non riescono lontanamente a connettere i puntini, a comprendere la natura condivisa della sfida (di sopravvivenza).

 

Nelle parole di Sergey Khorshman, imprenditore tecnologico ucraino, esponente di quell’“ecosistema della difesa” sorto all’indomani dell’invasione russa del 2022: “Abbiamo un problema di scala. I nostri nemici hanno una base industriale molto più ampia della nostra. Russia, Iran, Corea del nord e pure la Cina sono in grado di realizzare uno scale-up impressionante. Per questo sono necessarie più sanzioni anche secondarie sui paesi che forniscono componenti civili, facilmente convertibili nel settore bellico, come i cavi a fibre ottiche cinesi”. Khorshman è stato tra i primi a vedere l’opportunità nei droni Fpv (First Person View), e l’ha fatto, spiega a Vernetti, anche contro la diffidenza dello stesso establishment militare ucraino e alleato, costruendo un ambiente di difesa che ha come caratteristica la velocità nella competizione sugli armamenti con Mosca, Pechino, Pyongyang e Teheran. “Siamo qualcosa di molto diverso da ciò che chiamiamo il ‘triangolo della tristezza’: governo, militari e grandi aziende… Rheinmetall, Leonardo, Lockheed Martin, sono lenti e iperburocratici… noi siamo in una giungla… siamo gente della giungla, che raccoglie il veleno di una piccola rana per uccidere l’elefante”.

 

Khorshman è anche quello che nel 2014 ha acquistato una gigantesca partita di reti da pesca dai pescatori norvegesi per realizzare i tunnel antidrone che abbiamo visto all’opera in questi mesi. Il problema, però, è che al netto della formidabile inventiva degli ucraini o della solidarietà possente delle democrazie scandinave, i paesi del “mondo libero” faticano a riconoscere l’interdipendenza. C’è la “lunga catena di isole” che dai tempi di Truman e Eisenhower corre da Tokyo alle Filippine per contenere la Cina, ci sono i paesi baltici con la loro felice intensità ideologica, ci sono stati gli Accordi di Abramo, c’è la storica appartenenza della Turchia alla Nato, per quanto resa ambigua dalla presenza di Erdogan; ma al momento non sono in molti, a parte l’autore e altri inguaribili ottimisti, a vedere quella linea, tracciata da Tallinn all’Hokkaido. E poi c’è l’India. Perché la vera chiave di volta del nuovo Grande Gioco, che a distanza di centocinquant’anni è ancora tutto asiatico, Vernetti la vede nel subcontinente indiano: col suo miliardo e mezzo di abitanti, la sua democrazia rappresentativa funzionante per quanto messa alla prova dalle torsioni di Modi, la sua posizione geografica strategica. Per evitare la “sindrome di Chamberlain”, ovvero l’impulso di chiedere all’aggredito di soccombere all’aggressore, come fa Donald Trump, Vernetti invita a guardare al di là della politica dell’oggi, che non offre molte speranze, ma alle linee di convergenza strategiche, a medio e lungo termine.

 

Il rapporto transatlantico (come si è visto col voto bipartisan del Congresso Usa per il National Defense Authorization Act per il 2026), il destino europeo di Kyiv, il piano ReArm Europe quale spina dorsale delle politiche continentali dei prossimi anni. La vitalità economica di Giappone, Corea, Taiwan. E, appunto, la storica ostilità che contrappone India e Cina, così diverse, così (spera Vernetti) inevitabilmente incompatibili. Il nuovo containment è tutto lassù, sulle vette dell’Himalaya. C’è da costruirlo, possibilmente prima che venga giù tutto il resto.