euro sul mar nero

Sofia contro i maiali

Micol Flammini

La Bulgaria scivola nell’euro senza entusiasmo, tra le proteste e con un nemico: la corruzione. La faccia rattristata dell’Europa attende il cambiamento sotto la scritta “Happy”. Reportage 

Sofia, dalla nostra inviata. Nel Largo dove un tempo spadroneggiava una statua di Lenin, serio, imperioso, con lo sguardo in avanti per scrutare il futuro socialista, oggi la figura principale è un porco. Un grande salvadanaio a forma di maiale pitturato di rosa fissa l’edificio che ospitava la sede del Partito comunista e dove oggi si riunisce l’Assemblea nazionale bulgara. Fino a trentasei anni fa, la stella rossa svettava dall’edificio, oggi è stata trasferita assieme alla statua di Lenin nel Museo dell’arte socialista, un cimitero della Bulgaria durante la Guerra fredda, che riposa in periferia, lontano dal centro della città che nelle ultime settimane è stato percorso dalle proteste contro la Legge di bilancio che hanno portato giovedì scorso alle dimissioni del primo ministro Rosen Zheljazkov. Ottenute le dimissioni, la piazza si è spenta, per strada rimane qualche adesivo con la scritta “Stop al budget del 2026” e nel Largo c’è ancora posizionato un divano giallo, sistemato proprio davanti al maiale con vista Assemblea nazionale per dire ai governanti: noi non ce ne andiamo, rimaniamo a guardarvi. Ma a sorvegliare sul potere non c’è più nessuno, il divano rimane a disposizione per le foto di qualche turista che trova divertente essere immortalato con un maiale alle spalle e nel grande Largo dedicato all’Indipendenza si aggirano soltanto poliziotti e un piccolo gruppo di persone che ha attaccato qualche cartello in bianco e nero, fotocopie su fogli A3 e A4, con su scritti slogan e richieste: “Siamo forti insieme”; “I test devono mostrare la verità, non accusare”; “Test falsi, vera ingiustizia”; “Giustizia non risultati falsi”. La protesta era partita dalla legge di Bilancio, che prevedeva aumenti di contributi sociali  e previdenziali a carico di lavoratori e imprese, ma a far infuriare i bulgari non è stato tanto l’aumento delle tasse, ma il timore che quel denaro sarebbe andato a nutrire un sistema politico corrotto. Le proteste hanno iniziato a gonfiarsi, si sono trasformate in rabbia, sono finite anche in scontri con la polizia. “Il problema sono due persone di cui proprio non riusciamo a liberarci”, racconta Mario, che non è mai andato a manifestare perché non ama occuparsi di politica, dice, ma condivide le posizioni di chi era in piazza. Questi due personaggi sono Delyan Peevski, un oligarca di quarantacinque anni, più o meno l’età di Mario, sanzionato dagli americani e dai britannici per corruzione, considerato il padrone del paese. Peevski entra ed esce dai palazzi del potere, è in Parlamento ininterrottamente dal 2009, riesce a essere il perno della politica della Bulgaria con il suo Movimento per i diritti e le libertà (Dps). Il maiale in Largo Indipendenza è lui, “Svinja” è il suo soprannome e i manifestanti che si augurano la sua scomparsa dalla politica, hanno gridato: “Quando Peevski cadrà, non vorrò stare sotto, così non mi cadrà addosso” – è molto grasso. Per molti bulgari, Peevski incarna l’impotenza del paese di fronte alla corruzione. Lui invece è  potente, capisce sempre come riposizionarsi: dopo l’inizio dell’invasione russa contro l’Ucraina  si è mostrato atlantista, europeista, fortemente dalla parte dell’occidente; è durata fino al ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, quando l’oligarca ha iniziato a predicare contro l’ideologia woke e ha istituito una commissione di inchiesta contro “le attività di George Soros e di suo figlio Alexander Soros sul territorio bulgaro”. Per le associazioni che combattono contro la corruzione in Bulgaria, la commissione di Peevski non è stata altro che un modo di limitare il loro lavoro. Il maiale salvadanaio che oggi fa da sfondo alle foto dei turisti per ora rimane placido all’inizio di Largo Indipendenza, come Peevski se ne sta tranquillo in Parlamento e i sondaggi danno il suo partito al 13 per cento. “L’altro politico che continuiamo a ritrovarci fra i piedi è Boyko Borisov”, prosegue Mario. Borisov è il leader del partito Gerb (Cittadini per lo sviluppo europeo della Bulgaria), ed è considerato il vero leader del paese: il premier dimissionario Zheljazkov è del suo stesso partito, è stato suo ministro, per i bulgari non ha fatto altro che eseguire gli ordini del suo capo. Come Peevski è soprannominato “Maiale”, Borisov è chiamato “Zucca”, un appellativo che gli sarebbe stato affibbiato dalla criminalità organizzata. Nei giorni delle proteste, i manifestanti hanno gridato: “Non voglio essere governato da un maiale o da una zucca”. I sondaggi però indicano che proprio come Dps, anche Gerb ha ottime possibilità di restare in Parlamento e andare al governo con il 24,8 per cento dei voti, un punto in meno rispetto alle ultime elezioni, ma comunque rimarrebbe il partito più votato del paese. 


La piazza contro la legge di Bilancio si è calmata, chi è rimasto al Largo Indipendenza protesta invece per l’alcol test. Sono cinque persone in tutto, hanno affisso i cartelli in bianco e nero, una ragazza prova a spiegare che “questa è un’altra protesta, organizzata perché l’alcoltest della polizia è finto”. E indica i cartelli con le fotocopie con le scritte  “I test devono mostrare la verità, non accusare”; “Test falso, vera ingiustizia”; “Giustizia non risultati falsi”. “Ti fanno l’alcol test ed è già manomesso, così devi pagare la multa. Ma poi quando fai le analisi scopri che sei pulito”. Un poliziotto rimane molto vicino mentre la ragazza parla, non interviene, ascolta, lei continua a parlare: “E’ tutto parte della corruzione”. “Corruzione” è la parola più pronunciata in Bulgaria, è la malattia del paese, la condanna, il tormento. Se qualcosa non funziona, spiegano in tanti: è colpa della corruzione. Se qualcosa funziona è perché c’è chi è disposto a pagare i corrotti. E’ un problema talmente grande che tutto il resto non conta. E’ un nemico talmente cupo, pesante, scaltro che i bulgari non sanno quale possa essere la strada per sconfiggerlo. Nulla suscita interesse, la Bulgaria sembra un paese costretto a guardarsi l’ombelico. 


Nonostante la posizione, affacciata sul Mar Nero, ormai dal 2022 un mare di guerra, dove la Nato, di cui Sofia fa parte, e la Russia si sfiorano e in cui l’Ucraina è riuscita a ristabilire delle regole che vengono rotte soltanto dagli attacchi russi, la guerra non sembra destare molto interesse nei bulgari. Dopotutto Sofia è esposta, è un luogo in cui si avverte la frontiera fra i due schieramenti, eppure nulla si percepisce: è talmente preoccupata che pare pensare soltanto a Sofia. Per le strade della capitale della Bulgaria non ci sono né bandiere ucraine né palestinesi, i due conflitti che hanno cambiato i colori delle città europee – con la sfacciata predominanza del nero, bianco, rossi e verde, fatta eccezione per i paesi baltici, dove il celeste e il giallo dell’Ucraina sono la manifestazione delle priorità nazionali – non sono arrivati a Sofia. Il mondo pare rimbalzare sui confini della Bulgaria, costretta a guardarsi dentro, preoccupata, stanca, intristita, ora pronta alla sua ottava elezione nel giro di quattro anni. 


Dal primo gennaio la Bulgaria adotterà l’euro e nulla fa percepire un sentimento di trepidazione o l’entusiasmo per accedere a uno stadio ulteriore della famiglia europea. Si vedono pochi manifesti di campagne a favore, c’è poca promozione per l’arrivo della moneta unica. Compaiono invece cartelli contrari. “La gente è divisa sull’argomento”, spiega Mario. Non lo dice sulla base dei numeri ma su una percezione personale, che si rivela esatta andando a leggere i sondaggi: secondo l’Eurobarometro, l’opinione pubblica della Bulgaria è per il 50 per cento contraria e il 43 per cento favorevole. L’ultimo studio della Commissione era stato pubblicato nell’autunno del 2024 e il numero dei contrari era leggermente più basso. La Bulgaria entrerà nell’euro senza un governo e senza una legge di Bilancio, “le persone temono l’inflazione. Temono che non sarà più possibile comprare una casa”. Mario fa il tassista, di discorsi ne sente molti, non si espone, ma osserva. Chi guida la campagna contro l’euro si capisce da alcuni cartelli per le metro di Sofia che incitano a protestare per “salvare il lev” – la moneta bulgara che oggi vale 0,5 euro – e portano il simbolo di Vuzrazhdane, Rinascita, un partito di estrema destra vicino alla Russia che dall’inizio della guerra in Ucraina ha predicato la necessità di avvicinarsi a Mosca, a favore di una politica contro Bruxelles e di distanza nei confronti della Nato. Rinascita rimane fermo al 13 per cento nei sondaggi, il timore è che, se la situazione economica delle persone dovesse peggiorare nei primi mesi dell’euro, il gradimento potrebbe aumentare. Non riuscirebbe mai ad avere la maggioranza dei seggi e sarebbe difficile trovare partiti disposti a formare una coalizione, ma è abile a raccogliere consensi, tanto che nel 2023 aveva raccolto 600 mila firme per un referendum sull’adozione dell’euro, che poi venne respinto dalla Corte costituzionale e dal Parlamento. In queste settimane Rinascita ha sostenuto le proteste, aggiungendo alla contestazione della legge di Bilancio le rivendicazioni contro la moneta unica, e ha accusato il governo di stringere con Bruxelles un patto con il diavolo. Secondo Maria Simeonova dello European Council on Foreign Relations, l’Ue è accusata di avere un atteggiamento protettivo nei confronti di politici come Borisov che “da tempo garantisce stabilità alla Bulgaria e ha una posizione europeista”. Borisov e anche Peevski lo hanno capito, hanno sempre adottato una politica a favore dell’Ucraina, sostenuto le posizioni di Bruxelles, convinti di poter avere in cambio tranquillità per le loro politiche. Il problema, sostiene l’esperta, è che si tratta di una facciata e se l’oligarca sta già iniziando a mostrare il suo volto, Borisov potrebbe fare altrettanto, soprattutto vedendo che il sostegno a Bruxelles non garantisce più il funzionamento dei suoi affari interni. In realtà l’Ue non è stata così accondiscendente con i politici bulgari, nell’ultimo studio sullo stato di diritto ha scritto che le condanne per la corruzione rimangono troppo limitate e ci sono lacune significative. Tutto questo non è stato abbastanza per far diventare la piazza contro la corruzione una piazza europeista: c’erano bandiere bulgare, nessun simbolo dell’Ue. 


Ma come Kyiv, come il mondo, anche Bruxelles sembra lontana. Sofia pare europea per inerzia, schiacciata dai suoi tanti anni di storia, le cui stratificazioni si scorgono proprio sotto a Largo Indipendenza, si vedono le tracce dei romani, degli ottomani, dei sovrani, del socialismo e della sua fine senza rivoluzione. Ogni epoca respinge l’altra e la vita della capitale bulgara sembra ruotare attorno a due punti, imprescindibili per capire l’identità di un paese europeo in lotta con se stesso. La cattedrale di Aleksandr Nevski è il primo, impossibile non passarci davanti, impossibile non scorgere il luccichio delle sue cupole: è stata costruita per commemorare i soldati russi morti durante la guerra russo-turca. Sofia sta spostando statue, alcuni piedistalli restano mozzati, l’enorme monumento all’Armata sovietica oggi fa da perno a una lunga pista di pattinaggio sul ghiaccio, le statue sono state portate via dopo il 2022 con un processo lento, svogliato e disunito, ma è impossibile ignorare Aleksandr Nevski e la sua storia. L’altro è la catena di ristoranti Happy, con le loro insegne rosso fiammante. “Una bistecca dieci euro, se vuoi c’è anche il sushi”, Mario è entusiasta. E’ il centro della convivialità di Sofia, si mangia l’insalata bulgara shopska con formaggio sirene, pomodori, cetrioli e peperoni, ma anche tutto il resto. Entri da Happy e trovi il mondo in tavola. Il motivo per cui Happy piace tanto sono i prezzi, ma anche la storia: il primo ristorante venne aperto a Varna, sulla costa bulgara, da Orlin Popov, che riuscì a sfondare le frontiere e aprì anche in Romania, Spagna e Regno Unito. Popov voleva fare l’Hard Rock Cafè della Bulgaria e senza saperlo ha dato un motivo di orgoglio e un punto di ritrovo al paese: per sedersi in una delle otto sedi di Sofia bisogna stare in fila: “Il servizio ti fa tutto in dieci minuti, puoi stare per due ore”, assicura Mario. 


La via della Bulgaria verso un futuro in cui credere sembra partire da qui: dietro una grande scritta rossa con la parola “Happy” (felice). Una felicità di due ore, rapida, economica, per la quale i bulgari si mettono in fila, forse confidando anche nel fatto che il fondatore al massimo è accusato di qualche lite in famiglia o scappatella, ma sul suo curriculum non appare mai la parola “corruzione”. “Happy” è pulito, sarà per questo che piace tanto ai bulgari. 
 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)