L'editoriale del direttore

Sui social meno paternalismo di stato e più interventismo dei genitori. Diffidare della legge australiana

Claudio Cerasa

Il divieto di accesso a Instagram e i suo fratelli per i minori di sedici anni fa discutere. Ma vietare i social è davvero uno strumento utile per far sì che i giovani siano protetti dagli algoritmi potenzialmente pericolosi della rete?  E' come vietare la scuola per evitare il bullismo: un goffo paternalismo di stato che confonde un problema con il mezzo che lo veicola

La storica decisione del governo australiano di limitare, a partire dalla giornata di ieri, l’accesso ai principali social network mondiali ai ragazzi e alle ragazze di età inferiore ai sedici anni può essere commentata scegliendo due chiavi di lettura. La prima chiave è quella che si concentra su un dettaglio importante. Si può essere contrari all’idea che lo stato possa o addirittura debba fare qualcosa per proteggere i giovani dall’esposizione eccessiva ai social network; e si può essere contrari all’idea che lo stato debba responsabilizzare ancora di più le piattaforme che offrono i servizi di social network (già oggi iscriversi sotto i tredici anni a Facebook, Instagram o TikTok non sarebbe consentito), introducendo sanzioni severe per chi non espelle gli utenti che non dovrebbero essere iscritti a quelle piattaforme? Ovviamente no. La legge australiana, in vigore da ieri, prevede che le dieci grandi piattaforme di social media (Facebook, Instagram, Kick, Reddit, Snapchat, Threads, TikTok, Twitch, X e YouTube) siano obbligate a disattivare gli account di tutti gli utenti di età inferiore ai sedici anni registrati dopo il 10 dicembre. Per farlo, alle piattaforme verrà data la possibilità di analizzare il volto degli utenti, incrociare le immagini con i dati già presenti negli account, studiare il comportamento online e, come ultimo passaggio, verificare i documenti inseriti per dimostrare di avere più di sedici anni.

 

La seconda chiave di lettura che si potrebbe utilizzare per valutare la bontà o meno della legge australiana riguarda il contesto generale che dovrebbe spingerci a ragionare attorno a una domanda chiave: vietare i social media a chi ha meno di sedici anni è uno strumento utile per far sì che i giovani siano protetti dagli algoritmi potenzialmente pericolosi della rete? Si potrebbe provare a rispondere a questa domanda chiedendosi se offrire alle piattaforme la possibilità di accedere in modo ancora più indisturbato rispetto al passato ai contenuti sensibili di chi è iscritto ai social sia davvero un modo per tutelare i minori. Ma la questione, in fondo, è ancora più semplice. E se ci si sforza un istante non ci vorrà molto a capire che bandire i social per evitare che i più giovani possano essere esposti ai problemi generati dai social è come voler vietare la scuola perché nella scuola avviene il bullismo: sicuri sia una buona idea? Evidentemente no. Il goffo paternalismo di stato che confonde un problema reale con il mezzo che lo veicola tende a concentrarsi sul dito senza preoccuparsi di guardare la luna. Se il problema dei social è legato alla diffusione di contenuti estremisti, ai discorsi d’odio, alle menzogne sistematiche, le piattaforme dovrebbero essere responsabilizzate sulla reattività rispetto a questi contenuti, non su altro.

 

Se il problema dei social è legato al rimbambimento dei ragazzi o al rischio di esposizione a contenuti nocivi per il cervello (a proposito: chi decide quali lo sono?), oltre a vietare i social si dovrebbe anche evitare di far stare i ragazzi per ore davanti alla tv (davvero vogliamo aprire quel file?), o verificare se passano troppo tempo in discoteca (attiviamo le ronde di stato?) o se ascoltano musica spazzatura in eccesso (facciamo intervenire gli artificieri se ascoltano troppo Papa V?). Se il problema dei social è legato al numero di ore elevato passato sui dispositivi elettronici, allora il problema non è la libertà che può offrire un social, ma la mancanza di regole chiare in famiglia, di fronte alla quale c’entra poco l’assenza o la presenza di un divieto imposto dallo stato.

 

Se il problema dei social, rispetto ai minori, è invece l’inconsapevolezza di ciò che può produrre un’esposizione eccessiva agli algoritmi della rete, più che pensare a vietare, lo stato dovrebbe preoccuparsi di educare, spiegare, rendere la tecnologia uno strumento al servizio della conoscenza, anche per i minori. E questo vale per un social network come per un’intelligenza artificiale: se uno strumento prezioso genera degli abusi, si interviene per limitare gli abusi, non per limitare lo strumento. Il governo australiano, prima di scegliere la via del divieto, ha ricevuto un rapporto poco pubblicizzato ma molto approfondito dalla commissione parlamentare competente che ha analizzato la legge, le tecnologie coinvolte e le evidenze scientifiche rispetto ai rischi indicati dal governo. Il governo non ha tenuto conto delle conclusioni della commissione, che segnalavano criticità, alternative e rischi strutturali dell’approccio scelto. Ma gli elementi presenti nel rapporto aiutano ad aggiungere altri spunti di riflessione, utili per dubitare della bontà del paternalismo di stato applicato alla tecnologia. Il Senato australiano considera il ban under 16 tecnicamente fragile, rischioso per la privacy, potenzialmente dannoso, facilmente eludibile e inefficace, perché non affronta il problema strutturale del digitale, che riguarda i contenuti delle piattaforme, non la libertà di accesso degli utenti, e limitare poi l’accesso ai social significa limitare anche l’accesso all’informazione, alla libertà di espressione, alla partecipazione alla vita sociale, al diritto a essere ascoltati (per non parlare del fatto che espellere gli under 16 da Instagram, Facebook e TikTok porterà gli stessi under 16 verso social che sfuggono alle regolamentazioni, come Telegram). Il documento, poi, dice esplicitamente che “tentativi di escludere i bambini dai social media possono ledere altri diritti e quindi non essere nel loro migliore interesse” (per alcuni minori i social non sono un luogo di perdizione, ma uno strumento fondamentale per avere accesso al mondo). Premere il pulsante del panico per vietare tutto può essere un placebo piacevole che per un istante dà l’illusione di aver affrontato il problema. Ma se si vuole davvero aiutare i minori a non cadere nelle trappole degli algoritmi, più che pensare a vietare occorrerebbe rendersi conto di quanto sia pericoloso sollevare gli adulti dal dover risolvere problemi che riguardano la responsabilità educativa dei genitori, non quella dello stato. E dunque, sì: vietare i social, come ha fatto l’Australia, rischia di non essere altro che un diversivo comodo, per non volere dire una fantozziana boiata pazzesca. 

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.