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resistere per esistere

Dopo anni di sangue e logoramento, tra Russia e Ucraina si riapre il nodo delle garanzie

Andrea Graziosi

Kyiv combatte e resiste per riaffermare il suo diritto a esistere. Per continuare a sostenere gli ucraini anche l’Unione europea deve imparare a fare da sola e soprattutto capire che cosa vuole diventare

La guerra in Ucraina dura ormai da quasi quattro anni, come la Prima guerra mondiale in Italia, e ha fatto ben più di un milione di morti e feriti gravi, in maggioranza russi ma anche, e tanti, ucraini, inclusi circa 20.000 civili. Una guerra così lunga e pesante è sempre di per sé anche una rivoluzione, e infatti ha già cambiato società, economie, mentalità, modi di vedere e rapporti internazionali. Essa è oggi a una stretta forse decisiva – che potrebbe chiudersi con il suo raffreddamento se non la sua conclusione – di cui è difficile discutere perché mancano informazioni fondamentali e parole e discorsi sono usati come armi di pressione, ricatto e influenza e non è quindi facile interpretarli. Si può, tuttavia, provare a guardare la realtà, anche quella che non piace, e trarne alcune indicazioni interessanti e forse persino utili. I segni che suggeriscono che entrambi i contendenti sono almeno oggettivamente pronti a chiudere non mancano. Mosca presenta come una vittoria la possibilità di una soluzione che quattro anni fa avrebbe sconsigliato l’inizio di una guerra cominciata cercando di prendere Kyiv e Charkiv e di conquistare Odesa per raggiungere la Transnistria. Lo fa perché Putin non può sopportare nemmeno dentro di sé l’idea di aver provocato una catastrofe che Mosca paga anche in termini di dipendenza dalla Cina, oltre che di sconquasso socio-economico e culturale, e il cui unico elemento positivo per il regime sta nell’ascesa di Trump al potere, che con la guerra ha poco a che fare. Malgrado un quasi miracoloso recupero iniziale, l’Ucraina ha dovuto invece rinunciare al sogno della controffensiva e della riconquista di tutto ciò che aveva perso nel 2022, ed è alle prese con una situazione economica e finanziaria difficile e con una demografica che, a causa dell’esodo provocato dall’invasione, è più grave di quella russa, pure pesante.

Contrariamente alle aspettative generali del 2022, Kyiv è però riuscita a difendere gran parte del suo territorio e soprattutto ad affermare il suo diritto di esistere. Quest’ultima è la questione di gran lunga più importante. Si legge e si dice oggi che la questione più spinosa della trattativa sia quella territoriale, certo ingiusta e dolorosa. Sembra però di poter dire che ancora più essenziale sia quella delle garanzie che verranno date, e da chi, a un’Ucraina indipendente che nel 2022 tutti o quasi credevano condannata a diventare un moncone di stato controllato da Mosca. Nel corso della loro storia succede infatti che gli stati perdano o acquistino territori, come è per esempio accaduto a quelli nati dalla crisi degli imperi zarista, austro-ungarico e ottomano nel 1918 o della Jugoslava e dell’Urss nel 1991. La cosa decisiva è che essi non perdano la loro indipendenza, cosa che per esempio anche la Finlandia sconfitta nel 1940 è riuscita a fare, conquistandosi con la sua resistenza una vita certo sottoposta a limitazioni ma infinitamente più libera di quella del resto dell’Europa orientale nel secondo Dopoguerra. L’Ucraina ha resistito ben più a lungo, continua da un anno a combattere con tenacia in condizioni difficili (altro che guerra “per procura” come raccontano da anni commentatori che non si sa quanto in malafede e quanto istupiditi dalle loro stesse teorie del complotto) ed è ancora disposta a farlo: i sondaggi dicono che circa il 75 per cento dei suoi abitanti crede che una vittoria sia ancora possibile. E vittoria non vuol dire per forza riprendere tutto. E’ tale anche il restare padroni di una casa propria, grande e difesa con un’eroica guerra di indipendenza. Il vero problema è quindi appunto quello della qualità delle garanzie che verranno estese all’Ucraina e di chi e come se ne farà garante. Si tratta di una questione cruciale anche per il futuro di un’Ucraina che solo in loro presenza potrebbe affrontare una ricostruzione difficile con lo spirito di chi sa di essere padrone del suo destino ed è quindi in grado di accettare anche dei sacrifici e di affrontare con fiducia grandi sfide perché cosciente e orgogliosa del miracolo che ha fatto e capace di sopportarne il prezzo. Ma le garanzie sono paradossalmente necessarie anche a Putin che – in assenza di una piena vittoria sul campo che non è arrivata nemmeno nelle condizioni a lui favorevoli del quarto anno di guerra – ha bisogno di mostrare qualcosa per sopravvivere e potrebbe ottenerla in fretta solo se l’Ucraina ricevesse le garanzie di cui ha sua volta bisogno.

 

 

Qui le cose tuttavia si complicano e rendono difficile arrivare a una soluzione, perché l’Occidente, quell’“Occidente collettivo” che Mosca amava denunciare, non esiste più da tempo: gli Stati Uniti sono diventati altro e i paesi europei non hanno pensato dopo il 1991 ad avviare una forma di costruzione statale, che tale non è un’“Unione” che ha pochissimi poteri perché ha conservato il diritto di veto e non può decidere a maggioranza su questioni chiave. Dall’altro lato l’interesse cinese a tenere la Russia nella sua sfera di influenza è troppo grande perché vi possa rinunciare (di recente Mosca ha persino temporaneamente sospeso la necessità dei visti per molte categorie di visitatori cinesi), a meno – forse – di un riconoscimento formale del suo ruolo di superpotenza da parte di Washington, che avrebbe costi molto alti per quest’ultima. Chi e come potrà dunque garantire l’Ucraina? La realtà per fortuna supera sempre l’immaginazione e forse una soluzione verrà trovata, specie se l’esaurimento dei due contendenti si facesse ancora più pesante. La domanda permette intanto di guardare con più chiarezza alla situazione “europea”, che richiede delle virgolette proprio perché un soggetto unico europeo non esiste, c’è stata la Brexit e un’Unione che non è in realtà tale non può negoziare certe cose. La reazione di molti intellettuali e leader politici dei paesi europei sta seguendo uno schema prevedibile: al lutto per la “follia” dello zio d’America (un evento tragico anche perché gli erano state date le chiavi di casa), sono seguiti rabbia e sconforto, che sono cattivi consiglieri perché si tratta di sentimenti che i deboli non hanno il lusso di poter provare e perché occorre sempre sperare che le cose migliorino, anche se non torneranno mai – e non solo nelle coscienze – le condizioni di una fiducia totale durata ahimè ben oltre la loro sussistenza. Posto che già de Gaulle non aveva tutti i torti (non a caso la Francia è l’unico paese europeo ad avere un suo deterrente atomico, visto che quello inglese è una sorta di leasing statunitense) il 1991 avrebbe dovuto comunque suggerire a tutti che era venuto il momento di farsi ridare quelle chiavi. Alla rabbia è seguita la giusta volontà di reagire, che è la base indispensabile per costruire un futuro europeo. Ma reagire come, e con che strumenti, e facendo cosa per l’Ucraina se Washington forzasse un accordo, oltre al molto che si sta facendo da quattro anni? Basta aggrapparsi a un’identità europea e a simboli che purtroppo non rappresentano uno stato, ancorché in costruzione? E’ realistico chiedere all’Unione di essere o fare quello che non può essere o fare perché non ne ha gli strumenti? E lo è pensare che possa fare in tempi brevi un salto in direzione della costruzione statale, considerate le regole che si è data? Sarebbe forse più saggio chiedere a un’Unione-associazione di fare quello che sa e può fare, che non è poco anche per i grandi passi avanti che ha mosso negli ultimi anni: per esempio compiere uno sforzo straordinario in campo scientifico per una fusione nucleare, un’intelligenza artificiale, delle società simili per dimensioni e capacità a Google, una rete satellitare civile e militare, ecc. europee. Ma soprattutto e al contempo sarebbe necessario provare a costruire rapidamente altre vie per il nostro futuro, lavorando sodo e in silenzio, insieme ai paesi che sentono il pericolo di restare soli e piccoli e privi di protezione in un mondo abitato da giganti e minacciato da conflitti.

 

 

Si può pensare a far questo costruendo un polo autonomo europeo nella Nato? Vale comunque la pena di provarci, ma la svolta radicale statunitense suggerisce che quel che sembrava realistico poco tempo fa almeno al momento non lo è forse più. La via principale per ritornare a essere padroni di noi stessi, aiutare l’Ucraina anche domani e riportare l’Europa, come tale, nel mondo è quindi quella di una collaborazione diretta, stabile, strutturata e formalizzata di “volenterosi” che cesserebbero così di essere solo tali. Questo tipo di collaborazione si va delineando ma ancora non c’è in queste forme “mature” e il primo segno che ci si è messi davvero sulla strada giusta sarebbe la capacità di fornire un contributo autonomo importante – politico, militare e economico – alle garanzie di cui si diceva, associando l’Ucraina a un avvenire che diverrebbe anche così solo nostro. E’ evidente che su questa soluzione pesano le minacce politiche sul futuro di Macron, Starmer e dello stesso Merz, che ne potrebbe essere l’anima. Sono minacce reali, che affondano le loro radici nell’invecchiamento, nel disorientamento e nella delusione delle popolazioni europee, ma per fortuna gli ultimi due hanno ancora il tempo necessario ad affrontarle e il primo quello di contribuire a che ciò si faccia, cominciando così anche a dare una risposta al male di vivere europeo. Farlo vuol dire anche cercare di capire cosa potrebbe essere questa Europa. E’ possibile fare a meno della Gran Bretagna? E’ opportuno concludere che la Russia non ne faccia “per sempre” più parte? Ed è giusto continuare a includervi paesi che seguono da tempo altre traiettorie, associandoli a queste eventuali nuove e statuali forme di collaborazione? O non sarebbe meglio cominciare a pensare che nelle costruzioni politiche la logica del “non uno di meno” è irrealistica e autolesionistica?

 

Qualche parola infine sull’Italia dove molti sembrano non vedere che quella di Putin è la logica pura del “femminicidio”: sei mia e quindi non te ne puoi andare, e se ci provi ti uccido, una logica che sembrerebbe normale trovare ripugnante, ma che si scopre avere ammiratori a sinistra come a destra, probabilmente in rapporto a preferenze profonde piuttosto che all’orientamento politico dichiarato. Anche per questo è possibile che, come indicano pure le reazioni alla tragedia di Gaza, il crescere delle pressioni internazionali ponga le condizioni per un riallineamento radicale della nostra situazione politica interna, com’è successo dopo il 1945. Le linee lungo le quali ciò potrebbe avvenire dipenderanno naturalmente dalle opzioni in campo, e anche per questo la presenza di una vera opzione “europea” sarebbe di importanza decisiva. Sarebbe bello che Roma ne sostenesse attivamente la nascita, contribuendo così al tentativo di recuperare la capacità europea di essere al mondo come entità collettiva indipendente.

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