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L'intervento
Meno retorica, più fatti. Cosa può imparare la sinistra dalla pace modello Leone XIV
Durante il suo viaggio in Libano, il Papa non ha chiesto stabilità, ma tenacia. Una lezione semplice e radicale: il compito della politica è mutare le caratteristiche del conflitto e trasformarlo, senza scambiare la sicurezza con la chiusura
Al direttore - Ci sono visite che si consumano nel protocollo, altre che si esercitano nel simbolo. E poi ci sono quelle che rischiano qualcosa. La tre giorni di Papa Leone XIV in Libano appartiene a quest’ultima categoria. Non tanto per le immagini – le bandiere bianche e gialle sventolate sotto la pioggia, la marcia lenta del papamobile tra i palazzi grigi di Beirut – ma per il lessico della sua presenza, per le parole scelte, per ciò che ha preferito non dire. In un paese bersaglio di raid israeliani, attraversato da faglie settarie, immobilità politica e una crisi economica senza fondo, Leone non ha portato l’illusione di una soluzione immediata, ma una provocazione antica: il coraggio.
“Beati i costruttori di pace”, ha ripetuto entrando al palazzo presidenziale. Non è una citazione da cornice: è un avvertimento. Leone non ha chiesto stabilità, ha chiesto tenacia; non ha predicato neutralità, ha invocato “amore per la pace che non conosce paura di fronte alla sconfitta apparente”. In questi anni di diplomazia iper-tecnologica, iper-prudente, iper-calcolata – dove ogni parola è un algoritmo di conseguenze – l’idea di osare è quasi rivoluzionaria.
Il Papa ha scelto di guardare il Libano non come un paese fallito, ma come un laboratorio morale. Questo, oggi, è un gesto politico. Nel suo discorso non c’è stato compiacimento per la “resilienza” libanese, quella formula occidentale che suona come una condanna: sopravvivere a tutto senza cambiare nulla. C’è stato piuttosto un invito a rifiutare la tentazione di scappare, a restare o tornare, a non delegare futuro e dignità solo alla fuga – una realtà quotidiana in una nazione che vede una nuova diaspora a ogni crisi.
Non ha portato la retorica del “ponte tra le religioni”, già consumata dalla politica sulle rive del Mediterraneo, ma il linguaggio dell’assunzione di rischio. Ha parlato del Libano come di un luogo “altamente complesso, conflittuale, incerto” – eppure, ha suggerito, è proprio nei territori dell’incertezza che si misura il grado di umanità di una politica. In altre parole: o si prova qualcosa che sembra impossibile, oppure si decide di convivere con il probabile, cioè con la guerra permanente.
Ma il tratto più sorprendente è stato ciò che ha detto a bordo dell’aereo, rispondendo ai giornalisti: “L’unica soluzione al conflitto israelo-palestinese è la creazione di uno Stato palestinese. Sappiamo che oggi Israele non accetta questa soluzione, ma la vediamo come l’unica possibile”.
Il coraggio, però, non è solo dire. La pace non è l’assenza di scontro, ma la capacità di attraversarlo senza lasciarsi deformare dalla paura. Perché è la paura, oggi, a produrre i veri muri: invisibili, interiori, culturali. E’ la paura che alimenta il riflesso del “prima noi e poi gli altri”, trasformando l’idea stessa di comunità in un recinto, quando la realtà ci ricorda che siamo tutti sulla stessa barca della famiglia umana.
C’è qui una lezione semplice e radicale: il compito della politica è mutare le caratteristiche del conflitto e trasformarlo. Le democrazie si ammalano quando scambiano la sicurezza con la chiusura, quando erigono confini mentali prima ancora che fisici, quando cercano salvezza nell’identità anziché nella responsabilità. Leone indica che il vero coraggio è restare nel cuore del conflitto – non per vincere, ma per non abbandonare l’idea che da quel centro possa nascere qualcosa di nuovo, più giusto, più umano.
Nicola Zingaretti
europarlamentare del Partito democratico