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avamposti strategici
La battaglia per Taiwan. Tokyo prepara i bunker, Taipei addestra i suoi soldati
Miyako, Ishigaki e Yonaguni. Tre isole trasformate in avamposti strategici, bunker e vie di fuga. Il Giappone si attrezza alla guerra con la Cina. E’ la crisi più pericolosa degli ultimi decenni e intanto l'Amministrazione americana è divisa: da una parte i difensori della democrazia e dall'altra i trumpiani
All’epoca del Regno delle Ryukyu, sull’isola di Miyako le tasse si riscuotevano in modo piuttosto brutale: ogni abitante si posizionava a fianco di una pietra, e chi la superava in altezza risultava eleggibile al pagamento. Bastava essere più alti di 140 centimetri, insomma, e gran parte del riso e della stoffa che producevi non ti apparteneva più. Oggi, tra un bagno e l’altro nelle acque paradisiache di Miyako, i turisti si fanno i selfie accanto alla pietra sbilenca, simbolo della coercizione e del dominio di Satsuma. Miyako è considerata una delle isole più belle, ma anche tra le più remote della prefettura di Okinawa, la regione dell’estremo sud giapponese. A circa cento chilometri a sud-ovest c’è Ishigaki, la terra del manzo più pregiato del mondo (altro che Kobe), delle mangrovie e delle barriere coralline, ma pure la municipalità che tecnicamente amministra le cinque isole disabitate e i tre scogli delle Senkaku, che la Repubblica popolare cinese chiama Diaoyu e rivendica (ma va!) come parte del proprio territorio. Da Ishigaki, proseguendo la navigazione verso est si arriva a Yonaguni. Sembra l’isola che non c’è, un avamposto solitario famoso soprattutto per i piccoli cavalli – una particolare e rarissima razza che prende il nome dell’isola – e per essere stata raccontata in passato, riprendendo stereotipi e fantasie dell’epoca, come un luogo di sole donne descritte da esploratori maschi come “belle, bianche, premurose e molto affettuose”. Ma quei racconti, appunto, appartengono a un’altra epoca. Il mito si è trasformato e oggi Yonaguni, che si trova a cento chilometri a est dall’isola di Taiwan, è diventato l’avamposto militare del Giappone in una potenziale guerra d’invasione di Pechino.
La guerra per Taiwan è una guerra sull’acqua. Dopo l’inizio dell’invasione su larga scala dell’Ucraina da parte della Russia abbiamo imparato a riconoscere le tattiche della guerra ibrida, i velivoli senza pilota, la strategia del terrore, ma siamo anche stati costretti a rivivere uno scontro fatto di carri armati, trincee, artiglierie, fronti che avanzano e arretrano per pochi chilometri. Una guerra di terra, materiale, sporca, misurata metro per metro. Quella per Taiwan – se mai la Repubblica popolare cinese dovesse iniziare un’invasione, come la Russia quel 22 febbraio del 2022 – sarebbe una guerra di navi, missili, aerei, droni, interdizioni marittime, sbarchi anfibi. Una guerra sull’acqua, per il controllo del mare e dell’aria, ma non di linee del fronte. Le isole giapponesi della prefettura di Okinawa, la casa di 1,47 milioni di persone (in tutta la prefettura), nonché la destinazione da sogno delle vacanze di milioni di asiatici, si trovano oggi nella stessa condizione dei Baltici qualche anno fa.
Il 22 e 23 novembre scorso Shinjiro Koizumi, da poco più di un mese ministro della Difesa del Giappone, ha visitato Miyako, Ishigaki e Yonaguni. Su quest’ultima isola, dove gli abitanti sono ormai poco più di 1.500 persone – e la guerra c’entra poco, c’entra la demografia e la vita isolata che non è poi così facile – Koizumi ha detto che il rafforzamento delle capacità di difesa nella regione sta andando avanti: già un paio di anni fa sono stati dispiegati sulle tre isole alcune unità missilistiche che lanciano gli intercettori PAC-3, cioè la versione più avanzata del sistema antimissile Patriot, e sarà installata anche “un’unità di guerra elettronica antiaerea”, la prima linea di difesa contro droni o sciami di droni. La popolazione è preoccupata: Okinawa è la regione più lontana da Tokyo, e non solo geograficamente. Lì la presenza militare americana, il passato bellico, l’invecchiamento della popolazione ha reso facile nei decenni la costruzione di un sentimento stratificato, fatto di pacifismo e risentimento, sfruttato periodicamente dalla propaganda cinese per spaventare la popolazione e renderla più scettica sulla possibilità di una guerra. Poi c’è la questione delle evacuazioni. La gente del sud di Okinawa ha il timore di non poter essere salvata in caso di conflitto su larga scala: i corridoi umanitari esistono per una guerra che si combatte sulla terra, ma per un’isola remota di poco meno di trenta chilometri quadrati – cioè lievemente più grande di Salina, nelle nostre Eolie – è difficile garantire la sicurezza della popolazione. E così la scorsa settimana è stato annunciato anche un piano per accelerare la costruzione di bunker sotterranei che possano offrire protezione per circa due settimane a chi non riuscisse a imbarcarsi nelle evacuazioni verso il Kyushu, previste come prima opzione dal governo. Si è parlato di un parcheggio sotterraneo trasformato in shelter per 500 persone a Miyakojima e un bunker da 200 posti sotto il municipio di Yonaguni.
Alla guerra della Cina per l’annessione di Taiwan, il Giappone si prepara da tempo. E’ per questo che quando il 7 novembre la nuova premier nipponica Sanae Takaichi ha detto che un conflitto per l’isola sarebbe un problema di sicurezza nazionale per Tokyo, non ha detto nulla di nuovo. La reazione della leadership di Pechino, però, è stata sproporzionata, gigantesca. E’ iniziata una rappresaglia economica, diplomatica, perfino turistica e culturale che non si vedeva da decenni. Da settimane, anche sui media nipponici, si discute dell’opportunità delle parole di Takaichi: servivano davvero? La cosiddetta ambiguità strategica – secondo la quale si è deliberatamente poco chiari su un punto, in questo caso un intervento militare a difesa di Taiwan – funziona ancora o è solamente una foglia di fico, in questo nuovo mondo fatto di estremismi e polarizzazioni?
“Per quanto mi riguarda, Taiwan è fregata”, dice al Foglio un frequentatore dei circoli politici di Washington, “l’Amministrazione americana è divisa a metà su questo punto”. Da un lato, i difensori della democrazia e dello stato di diritto. Dall’altro i trumpiani, con le loro regole mercantilistiche, spiega. Qualche giorno fa, la telefonata a sorpresa del presidente americano Donald Trump con il leader cinese Xi Jinping, si è conclusa in modo piuttosto ambiguo per il pubblico: secondo il lato cinese, il tema del dialogo fra i due era stato Taiwan, per il lato americano, la guerra in Ucraina. Qualche ora dopo Trump aveva telefonato a Takaichi, e secondo alcune fonti del Wall Street Journal le aveva consigliato “di non provocare Pechino sulla questione Taiwan” per evitare “che le tensioni mettessero a repentaglio la distensione raggiunta il mese scorso con Xi”. Nei giorni successivi, Takaichi ha modificato i toni, parlando di una frase estemporanea durante il dibattito e non di un cambiamento fondamentale della postura giapponese. Ma la macchina della rappresaglia cinese è ormai avviata e violentissima: boicottaggi economici, voli cancellati, azioni punitive ed eclatanti. Venerdì scorso la cantante giapponese Maki Otsuki, famosa per aver cantato la colonna sonora di “One Piece”, è stata fatta scendere dal palco all’improvviso durante un concerto a Shanghai. L’umiliazione pubblica serve a mandare un messaggio a chiunque si metta di traverso. Per la leadership di Xi Jinping Taiwan – e in generale le questioni territoriali che riguardano anche il Mar cinese meridionale – sono una priorità politica, un obiettivo già più volte manifestato: il metodo con cui “Taiwan tornerà alla Cina” è difficile da prevedere, ma non c’è più nessuno, tra chi si occupa professionalmente di diplomazia e relazioni internazionali, che esclude l’uso della forza.
Secondo quanto risulta al Foglio, in tutti i più recenti war games, i giochi di guerra con cui gli analisti provano scenari, cause e conseguenze di un potenziale conflitto, il problema principale è il blocco navale. L’Esercito popolare di Liberazione cinese si è già più volte addestrato a farlo: bloccare e strozzare l’isola, e costringerla alla resa. Nella dottrina politica classica, un blocco navale è un atto di guerra. Ma per come si sta mettendo il mondo, e per come si è mossa finora l’opinione pubblica, influenzata da propaganda e immagini, nei più realistici scenari di guerra un blocco navale cinese contro Taiwan potrebbe non provocare l’ondata di emotività e indignazione che di recente ha mosso la comunità internazionale. Una prolungata interdizione marittima però sarebbe un disastro economico per Taiwan, e pure per i paesi più vicini come il Giappone, e in generale per il commercio internazionale. Ma per l’opinione pubblica, tutto sommato, potrebbe essere accettabile che Taipei perda la sua autonomia piuttosto che finire col combattere una guerra per difenderla.
Tokyo sta avendo un assaggio di quel che succede quando ci si mette contro la potenza di fuoco della seconda economia del mondo. Ed è soprattutto sulla guerra ibrida, sulla disinformazione e sulla manipolazione delle informazioni che si svolge la battaglia più complicata – l’occidente conosce bene il metodo, perché lo vive da anni con le tattiche russe. Intanto Taiwan si prepara alla peggiore delle ipotesi provando a difendersi da sola, o con pochi alleati a difenderla. Il presidente taiwanese Lai Ching-te sta aumentando enormemente le spese per la Difesa – un modo per compiacere Trump, visto che Taiwan compra diversi sistemi d’arma dagli Stati Uniti – moltiplicando le esercitazioni militari, che di recente hanno coinvolto anche la popolazione civile, e cercando di attrarre talenti nelle rinnovate Forze armate: “Taipei ha ripristinato la leva obbligatoria annuale, aumentato l’indennità mensile per i volontari e puntato molto sulla pubblicità per corteggiare una generazione scettica”, ha scritto Clarissa Wei su Monocle. A novembre ogni famiglia taiwanese ha ricevuto a casa, per la prima volta, un manuale cartaceo per prepararsi a “potenziali emergenze”, compreso un attacco cinese. Dentro ci sono le istruzioni su cosa fare se i cittadini incontrano soldati nemici, mette in guardia sulla disinformazione (per esempio: qualsiasi affermazione sulla resa di Taiwan “deve essere considerata falsa”), offre indicazioni pratiche su come individuare i rifugi antiaerei e su come preparare i kit di emergenza da lasciare in casa o sul posto di lavoro.
Taiwan ha un vantaggio rispetto all’Ucraina: ha un esempio da seguire. Ma sta anche a paesi come il Giappone cercare di tenere la barra dritta, non soccombere alla propaganda di Pechino e convincere il resto del mondo del fatto che difendere Taiwan, come difendere l’Ucraina, significa difendere tutto il mondo libero.
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