Trump vuole usare Lukashenka per parlare con Mosca

Micol Flammini

Liberazione di prigionieri, canali aperti. La Casa Bianca ha l'uomo giusto per parlare con il dittatore bielorusso, John Coale si è conquistato la fiducia con chiacchiere, brindisi e soprattutto abilità negoziale. Ma rischia di sottovalutare i rischi: Minsk non è un attore neutrale

A fine aprile, il dipartimento di stato americano compose il numero di John Coale, ex avvocato del presidente americano Donald Trump, vice inviato speciale per gli Stati Uniti in Ucraina. La telefonata aveva uno scopo: fare di Coale l’uomo che avrebbe dovuto trattare con Aljaksandr Lukashenka, l’autoproclamato capo della Bielorussia che non ha problemi ad autodefinirsi “l’ultimo dittatore d’Europa”. A Coale l’incarico piacque e il giorno dopo partì  per Minsk per incontrare Lukashenka e parlare della liberazione dei prigionieri politici. Coale fa parte della costellazione di inviati della diplomazia trumpiana, come il generale Kellogg e Steve Witkoff, rappresenta un ingranaggio per aggirare la burocrazia del dipartimento di stato, quindi avere atteggiamenti inusuali, concedersi frasi che non sarebbero permesse alle istituzioni. 


L’avvocato di settantotto anni arrivò a Minsk in macchina dalla Lituania, venne condotto davanti al palazzo di Lukashenka in Viale della Vittoria e, una volta dentro, si trovò a stringere la mano al dittatore che ha trasformato il suo paese per metà in prigione dei suoi stessi cittadini e per metà in un parcheggio per i mezzi militari e i soldati di Mosca. Non era del secondo punto che avrebbe dovuto parlare Coale, ma soltanto del primo. Le raccomandazioni che gli esperti gli avevano fatto erano chiare e, fisicamente, Coale non era sicuro di poterle sopportare: fatti amico il dittatore, mostrati propenso alla baldoria e bevi. L’avvocato seguì i consigli, disse a Lukashenka di non ascoltare il dipartimento di stato, che fa troppe chiacchiere,  ma di parlare con lui. Poi a tavola venne portata la vodka di produzione di Lukashenka e, secondo il copione, non poté rifiutarla. Bevve tutto d’un fiato alla salute di Trump e non poté rifiutare neppure il secondo brindisi, che, come da tradizione, sarebbe toccato a lui fare. Con lo stomaco già in subbuglio, riuscì a evitare il terzo giro di vodka. Ripartì e, mentre era in macchina, ebbe la notizia che i primi prigionieri sarebbero  stati scarcerati. A giugno quattordici detenuti vennero portati al confine con la Lituania a bordo di un autobus pieno di agenti del Kgb, i servizi interni della Bielorussia. Quando scesero, finalmente liberi di guardare nella direzione che volevano, si trovarono davanti Coale: “Il presidente Trump mi ha mandato a prendervi per riportarvi a casa”. Fu l’inizio delle liberazioni, uscirono non soltanto prigionieri con passaporto americano, ma anche cittadini bielorussi, come l’oppositore Siarhei Tsikhanouski. Dalla scorsa settimana il ruolo di Coale in Bielorussia è diventato ufficiale e l’avvocato è stato nominato inviato speciale a Minsk. In diverse occasioni ha detto di essere convinto che Lukashenka voglia un buon rapporto con gli Stati Uniti che porti al sollevamento delle sanzioni. Il dittatore, secondo persone che in passato hanno collaborato con lui e che il Foglio ha interpellato, teme il capo della Casa Bianca: è un politico volubile e a Lukashenka piacciono gli schemi. Ora si fida di Coale, ha capito che può ottenere molto svuotando le carceri e gli Stati Uniti vedono in lui un fianco su cui lavorare per parlare al Cremlino. Vladimir Putin è diventato il salvatore di Lukashenka quando nel 2020, a seguito delle forti proteste per le elezioni rubate e l’inizio di  una repressione efferata contro il popolo bielorusso, ha offerto tutto il sostegno necessario per tenere il dittatore in piedi. Gli ha chiesto il conto due anni dopo: nel 2022 mandò il suo esercito in Bielorussia, usò il territorio del paese per posizionare i suoi missili, e sferrò anche dal lato bielorusso l’attacco contro Kyiv. Lukashenka è stato il primo capo straniero ad aderire attivamente alla guerra di Putin, pur rifiutando di mandare il suo esercito, poco addestrato, a sostenere i soldati di Mosca. Oggi non è escluso  che il fronte bielorusso contro Kyiv non possa riaprirsi. 


Putin per Minsk è una colonna, se l’economia della Russia va male, affonda anche la Bielorussia. Il dittatore aspira a fare da mediatore, è un ruolo che ama e di cui si fregia, anche quando non ha avuto voce in capitolo,  e capisce che adesso liberare i prigionieri politici può dargli molto di più che tenerli nelle carceri. Il problema è che Lukashenka non è un attore neutrale  e,  secondo un’inchiesta della Novaya Gazeta Europe, ha messo anche le sue carceri al servizio dell’esercito di Mosca. Dentro alle prigioni di Lukashenka, scrive la testata russa  ormai costretta a lavorare in esilio, i carcerati sono forzati a fabbricare casse per munizioni, uniformi, bare. Sono anche incaricati di estrarre piombo, rame e alluminio per Mosca. 


La leader dell’opposizione e moglie di Tsikhanouski, Sviatlana Tsikhanouskaya, ha detto al Foglio che il cambiamento dell’Europa non può prescindere da un cambiamento anche in Bielorussia. Quel cambiamento passa per la rimozione di Lukashenka. 
 

  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)