il racconto
Il tycoon che ha sfidato il regime cinese
Da una mezza tavoletta di cioccolato alla cella di un carcere cinese, passando per cani scuoiati e minacce. La vita dell’editore Jimmy Lai, raccontata dal figlio Sebastien, è la storia di un uomo solo contro il sistema voluto da Xi Jinping
“Il presidente Trump è soprannominato da molti ‘il liberatore in chief’, perché da quando è stato eletto ha fatto liberare molte persone in tutto il mondo. E’ davvero esperto in questo. Per noi è una grande fonte di speranza vedere quanto si stia interessando al caso di mio padre e quanto desideri salvarne la vita”. Sebastien Lai ha poco più di trent’anni e si fida di Trump. Cinque anni fa ha assistito all’arresto e al processo politico contro suo padre, l’editore di Hong Kong Jimmy Lai. Il motivo? Come molti altri cittadini di Hong Kong, Lai si batteva per la libertà e l’autonomia dell’ex colonia inglese, e così quando la leadership di Pechino ha deciso di intraprendere la via della repressione, ha chiuso il giornale simbolo di quella battaglia, l’Apple Daily, ha arrestato i giornalisti, i dipendenti e l’editore. Da oltre 1.600 giorni Jimmy Lai è considerato uno dei prigionieri politici simbolo della repressione del Partito comunista cinese. In una conversazione nella sede romana del Foglio, il figlio Sebastien non nasconde la speranza: qualche giorno fa Trump ha detto che avrebbe sollevato il caso con Xi Jinping, durante il loro primo bilaterale dal suo ritorno alla Casa Bianca. Il processo contro Lai a Hong Kong è finito un paio di mesi fa, i giudici – scelti dal governo locale, a sua volta scelto da Pechino – dovranno presto emettere un verdetto: “Penso che questo sia il momento in cui la pressione internazionale è davvero cruciale. E’ una vera finestra di opportunità”, dice Lai. Ora o mai più: “Mio padre sta per compiere 78 anni e la sua salute sta peggiorando. Durante tutto questo tempo è stato in isolamento, da solo in una cella. La sua religione è molto importante per lui, e grazie alla sua fede cattolica, grazie a Dio, è ancora forte mentalmente e spiritualmente, ma fisicamente si sta spegnendo. Questo è davvero il momento decisivo. Non so quanto tempo gli resti ancora in quelle condizioni”. A battezzare Jimmy Lai nel 1997 – lo stesso anno in cui il Regno Unito riconsegnò Hong Kong alla Cina – fu il vescovo emerito di Hong Kong, Joseph Zen, un’altra figura fondamentale della storia della città: i due contribuirono enormemente alla sensibilizzazione pubblica sui diritti e l’autonomia da Pechino (anche Zen è stato arrestato, condannato e poi rilasciato nel 2022). L’ondata di repressioni che seguì le proteste di cinque anni fa hanno creato un clima di terrore a Hong Kong: “Io non torno a Hong Kong da cinque anni, ma da quello che mi raccontano le persone, posso dire che l’atmosfera è di paura. Voglio dire, se sei un giornalista, soprattutto nella stampa locale, e vedi quello che è successo all’Apple Daily, cioè il giornale più importante, con cinquecento agenti di polizia che fanno irruzione, arrestano i giornalisti e sequestrano il materiale, è ovvio che hai paura. E’ un messaggio chiarissimo: ‘Possiamo venire a prenderti quando vogliamo’. E’ il segnale più evidente della repressione”, dice Sebastien Lai.
La storia di Jimmy Lai è un pezzo della storia dell’Asia orientale, e tra le più rappresentative di un modello di imprenditoria, di riscatto sociale, ma anche di emigrazione e di emancipazione.
Ma soprattutto la storia di Jimmy Lai porta con sé un messaggio molto pericoloso per Pechino: una volta che un essere umano ha raggiunto la libertà, è molto difficile togliergliela o limitarla. “Tutto cominciò perché mio padre, da bambino, lavorava in una stazione ferroviaria. Mio nonno era un proprietario terriero e fu perseguitato dai comunisti: dovette fuggire, mentre mia nonna venne mandata in un campo di lavoro. Così mio padre, a sei o sette anni, dovette mantenere da solo i fratelli più piccoli. Può sembrare incredibile oggi, ma altrimenti sarebbero morti di fame. Cercava di guadagnare qualcosa vendendo piccoli oggetti, ma veniva spesso picchiato perché c’erano tanti altri ragazzi come lui che cercavano di sopravvivere. Un giorno qualcuno gli disse di andare a lavorare alla stazione: i bambini potevano aiutare i viaggiatori a portare le valigie e in cambio ricevevano qualche mancia”, ci racconta Sebastien Lai. “Un giorno, un uomo elegante gli lasciò come mancia una mezza tavoletta di cioccolato, invece dei soldi. Lui non sapeva nemmeno cosa fosse, ma era così affamato che la mangiò subito. E per un bambino che non aveva mai assaggiato il cioccolato, fu un’esperienza quasi magica. Corse dall’uomo e gli chiese da dove venisse, e l’uomo rispose che veniva da Hong Kong. E così, a dieci anni, mio padre pensò: se il cioccolato viene da Hong Kong, allora Hong Kong deve essere il paradiso. La terra del cioccolato”. Dopo due anni Jimmy Lai riesce a convincere sua madre a lasciarlo partire: “Il giorno stesso fu messo a lavorare: la zia che aveva pagato il viaggio non aveva soldi, quindi lui dovette lavorare per ripagare il debito. Lavorò in una fabbrica tessile, imparò l’inglese e, con il tempo, divenne imprenditore. Fondò un marchio di abbigliamento chiamato Giordano – un nome italiano, perché credeva che se avesse usato un nome straniero la gente di Hong Kong avrebbe pensato fosse un marchio internazionale. Aveva ragione: funzionò benissimo, e Giordano divenne molto popolare”.
Giordano è ancora un marchio impresso nelle menti di chiunque in città, che all’epoca era ancora sotto al dominio britannico. Poi arrivò il 1989, e il massacro di piazza Tiananmen. “Durante le proteste pro democrazia”, dice Lai, “mio padre era ottimista: pensava, se io sono riuscito a costruire tutto questo grazie alla libertà di Hong Kong, immagina cosa potrebbe fare la Cina con le stesse libertà. Ma sappiamo com’è andata. Dopo Tiananmen, rimase devastato, ma capì che doveva fare qualcosa. Fondò prima una rivista, poi un quotidiano che non avesse paura di dire la verità al potere, che non si piegasse ai potenti, soprattutto in vista del 1997, quando Hong Kong sarebbe tornata alla Cina. Quella divenne la sua missione per i successivi venti o trent’anni. All’inizio lo prendevano in giro, perché aveva solo un’istruzione elementare. Molti giornalisti di Hong Kong gli dicevano: ‘Torna in fabbrica, non è il tuo posto’. Ma poi l’Apple Daily divenne il giornale più importante della città, e nessuno rideva più”. E per te, com’è stato vivere da ragazzo dentro a questi valori, e a questa missione? “Ovviamente succedevano molte cose a causa della posizione che mio padre aveva preso, difendendo una Hong Kong democratica e non avendo paura di dire la verità al potere – che si trattasse del governo cinese, di grandi imprenditori o persino dei boss della triade. Per tutti i venti o trent’anni in cui ha diretto il giornale, ha ricevuto continue minacce e intimidazioni. La nostra casa è stata colpita più volte da bombe incendiarie. Una volta, a Taiwan, qualcuno scuoiò un cane e lo appese alla porta di casa. I paparazzi di Hong Kong e Taiwan sono soprannominati ‘squadre dei cani’ (kowtow), perché trovano sempre le informazioni. Quel gesto era quindi un avvertimento: ‘Se continuate a scavare, questo è ciò che vi aspetta’. Eppure, nonostante tutto, da bambino non ho mai avuto paura. Credo perché nemmeno lui ne aveva. Sapeva di fare la cosa giusta. E’ questa, credo, la lezione più grande che mi ha trasmesso: non lasciarti schiacciare dalla paura e continua a lottare per ciò in cui credi”. Quando a metà degli anni Novanta il premier cinese Li Peng giustificò pubblicamente la repressione di Tiananmen, “mio padre si infuriò e scrisse un editoriale in cui lo definì un ‘figlio di puttana’. Li Peng, ovviamente, non la prese bene. Il governo cinese gli impose un ultimatum: o si scusava o vendeva Giordano, altrimenti l’azienda sarebbe stata cacciata dalla Cina. Mio padre scelse di non piegarsi e vendette Giordano, concentrandosi sul giornale. Apple Daily divenne una voce fondamentale del movimento pro democrazia”. Poi arrivò il 2019, con le grandi proteste, e subito dopo la legge sulla sicurezza nazionale. “Tutti gli consigliarono di fuggire, ma lui sapeva che se il direttore scappa, il regime colpisce chi resta. Così decise di rimanere, per difendere non solo i suoi princìpi, ma anche i suoi giornalisti. Oggi è in prigione, trattato come un nemico dello stato dalla Repubblica popolare, ma la maggior parte delle persone nel mondo lo considera un eroe, non un criminale. E io ne sono immensamente orgoglioso”.
C’è un certo ottimismo nelle parole di Sebastien Lai, che riguarda non solo la consapevolezza di chi sa che suo padre non avrebbe mai ceduto – lo disse lui stesso, in un’ultima intervista prima dell’arresto. Ma c’è anche la speranza che Pechino capisca che la sua detenzione in carcere, o peggio, la sua morte agli arresti non porterà nulla di buono. Perché le idee di Lai, come quelle di gran parte di Hong Kong, sono sopravvissute non solo alla repressione ma anche ai patti della politica internazionale.
C’è in realtà una certa preoccupazione a Washington sul metodo Trump applicato alla Cina: durante il suo primo mandato la Casa Bianca poteva contare su diversi funzionari specializzati e analisti, interi uffici dedicati allo studio delle mosse di Xi. Dal 2019 però, l’anno dell’ultimo incontro bilaterale fra i due, molte cose sono cambiate: Xi resta legato al cerimoniale e alla rigida struttura diplomatica della Repubblica popolare, ma ha studiato il metodo Trump e sa come reagire. Il presidente americano crede di poter fare da solo e soprattutto con la Cina, che vede soprattutto come un competitor economico piuttosto che strategico.
Non è un caso se negli ultimi giorni – e in particolare dopo il Quarto Plenum del Partito comunista cinese, momento fondamentale della politica di Pechino, e dopo la cerimonia per l’80° anniversario della “restituzione” di Taiwan alla Cina – l’agenzia Xinhua abbia pubblicato ben tre editoriali consecutivi firmati con “Zhong Taiwen”, lo pseudonimo collettivo che indica testi ufficiali riconducibili agli organi del Partito comunista cinese che si occupano di Taiwan. Parlano della riunificazione come di una priorità strategica, e di un fatto inevitabile. Nessuno sa se Trump sia davvero disposto a difendere Taiwan, o un eroe come Jimmy Lai, per una semplice questione di valori e di giustizia, senza un vantaggio economico, senza una transazione da dealmaker in chief, come ama definirsi. “Il popolo di Taiwan”, dice Sebastien Lai, “nelle ultime due elezioni ha votato per il Partito democratico progressista, il partito più favorevole all’indipendenza, e il più distante dalla Cina, proprio perché ha visto cosa stava accadendo a Hong Kong. Hanno percepito Hong Kong come il luogo in cui è stato messo alla prova il principio di ‘un paese, due sistemi’”, il modello di cui si parla spesso anche in riferimento a Taiwan, “e dove quella promessa è stata infranta. Credo che molti a Taiwan abbiano votato con questa consapevolezza, proprio perché hanno visto ciò che succedeva a Hong Kong”.