il viaggio
Per Trump il tour asiatico è solo contorno: l'unico obiettivo è Xi
Dalla Malaysia al Giappone della neopremier Sanae Takaichi e dell'imperatore Akihito (un "grande uomo"), fino alla Corea del Sud. Il presidente americano cerca di mettere in scena la sua leadership asiatica, ma tutto serve a convincere la leadership cinese che la Casa Bianca ha delle carte in mano
Considerata la nota riluttanza del presidente americano Donald Trump per i viaggi fuori dai confini nazionali, il primo tour asiatico del suo secondo mandato non poteva iniziare meglio. Domenica il presidente americano è arrivato a Kuala Lumpur, dove è apparso particolarmente allegro, ha presieduto alla firma di un accordo fra Cambogia e Thailandia – una delle otto “paci” che rivendica come risultato della sua politica estera – e i leader dei due paesi si sono prestati alla cerimonia anche se il cessate il fuoco fra Bangkok e Phnom Penh era stato già firmato tre mesi fa. Poi ci sono stati accordi bilaterali con diversi paesi dell’Asean, tutti impegnati all’appeasement verso Trump e la sua guerra dei dazi. La visita ufficiale in Giappone, iniziata ieri, è stata inaugurata dal delicatissimo incontro con l’imperatore Akihito: i giapponesi sono stati costretti a cancellare tutte le formalità del cerimoniale per mettere a suo agio Trump.
E infatti Trump è sembrato molto disinvolto, ha detto che Akihito “è un grande uomo”, ha parlato per mezz’ora con Sua Maestà di baseball e dei suoi successi politici. Il fatto è che gli incontri di questi giorni, dal sud-est asiatico al Giappone alla Corea del sud, dove mercoledì incontrerà il presidente sudcoreano Lee Jae-myung, per Trump sono solo contorno. L’unica priorità per la Casa Bianca è riuscire a ottenere un accordo con la Cina, attraverso il primo bilaterale in presenza con Xi Jinping da quando è iniziata la seconda Amministrazione americana a guida Trump e quindi anche la guerra dei dazi. Il presidente incontrerà il leader cinese giovedì mattina, e fino ad allora la sua missione sarà quella di mostrarsi forte con Pechino, sottolineare la benevolenza dei paesi asiatici nei confronti dell’America, e la capacità dell’America di avere una leadership a cui nessuno può rinunciare. In coreano esiste una parola per questo, è anmigyeongjung, che significa più o meno che gli Stati Uniti servono alla sicurezza, la Cina all’economia. Sono due ruoli diversi e complementari, che Trump vuole rovesciare.
Il primo test è quello con Sanae Takaichi, prima ministra del Giappone da poco più di una settimana, che Trump ha incontrato oggi per la prima volta – e non a caso la location è la Uss George Washington, la portaerei a propulsione nucleare americana attraccata alla base navale statunitense di Yokosuka. Durante il suo primo mandato da presidente americano, a Tokyo c’era Shinzo Abe, la sua stabilità e la sua influenza politica anche nei contesti internazionali. Abe era stato fra i primi leader a capire che per avere l’attenzione di Trump bisognava dispensare elogi, lusingarlo, sgomitare per essere tra i primi a sussurrare al suo orecchio. Oggi la situazione è cambiata di molto: per fare un esempio, l’ultimo primo ministro giapponese che ha incontrato Trump alla Casa Bianca è stato il predecessore di Takaichi, Shigeru Ishiba, e per il presidente americano nel corso dei mesi è stato così difficile ricordare il suo nome che quando ha raddoppiato i dazi contro il Giappone, a luglio, è stato costretto a chiamarlo “Mr. Japan”. I funzionari del Kantei, il palazzo del primo ministro di Tokyo, hanno istruito Takaichi a sfruttare la sua carta migliore con il presidente americano: non la strategicità del Giappone nell’Indo-Pacifico, ma la sua personale vicinanza a Shinzo Abe, con cui ha collaborato a lungo.
Dopo gli anni di Amministrazione Biden, in cui l’alleanza fra Washington e Tokyo (e Seul) serviva a mostrare unità contro l’aggressività cinese, Trump è tornato il vero elemento di pressione e imprevedibilità per tutti i paesi asiatici. I negoziati commerciali con il Giappone sono durati mesi, e l’accordo che ha fatto diminuire i dazi sui prodotti giapponesi dal 25 al 15 per cento, in cambio di investimenti da parte di Tokyo dal valore di 550 miliardi di dollari nelle industrie americane, non è stato ancora implementato, o meglio: è ancora un foglio bianco. Takaichi rischia di dover contrattare anche sul tema Cina, che non a caso resta il principale partner commerciale del Giappone, e su quello energetico – attualmente il paese importa il 10 per cento del suo fabbisogno di gas naturale liquefatto dal Sakhalin-2 russo, e alle richieste del segretario al Tesoro americano Scott Bessent di azzerare le importazioni, la scorsa settimana, ha risposto il neoministro del Commercio giapponese, Yoji Muto, che ha detto che Tokyo prenderà decisioni sulle importazioni energetiche “in base ai propri interessi nazionali”.
Un tema su cui i due sono d’accordo è quello relativo alle spese militari: nel suo primo discorso alla nazione, Takaichi ha annunciato di voler arrivare al 2 per cento di spesa militare entro il marzo del prossimo anno, invece che tra due anni come precedentemente fissato, e di voler aggiornare i tre documenti sulla sicurezza giapponese, come il National security strategy, che definisce le tre minacce principali del Giappone – Cina, Russia e Corea del nord – e il National defense strategy, che spiega cosa possono fare le Forze di autodifesa nipponiche e cosa no.
Per Trump la tappa giapponese è comunque subordinata a quella più importante in Corea, in vista del bilaterale con Xi: non a caso ieri è stato dato molto risalto alla telefonata fra il segretario di stato Marco Rubio (sotto sanzioni dalla Cina) e il suo omologo cinese Wang Yi, che ha detto che America e Cina dovrebbero incontrarsi “a metà strada” nei loro interessi nazionali. Subito dopo Trump ha rilanciato l’ipotesi di un incontro anche con il dittatore nordcoreano Kim Jong Un, considerato molto poco probabile dagli osservatori ma segnale che la Casa Bianca cerchi il coup de théâtre nel caso in cui il negoziato con la Cina finisca molto male.