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L'inflazione linguistica intorno alla parola "genocidio"
Così Lemkin arrivò a coniare il termine nel ’44. La gran parte degli studiosi oggi accetta anche l’idea dell’americano Irving Louis Horowitz sul ruolo chiave della burocrazia: “È genocidio la distruzione strutturale e sistematica di persone innocenti”. Il dibattito nel diritto internazionale
Adesso c’è la parola, con il dubbio e l’aspro dibattito su quali contesti applicarla. Ma la parola fu inventata perché c’era stato un sicuro e terribile contesto, e nessun termine per definirlo. “Il crimine senza nome”, era stato infatti definito da Winston Churchill il massacro degli ebrei appena scoperto nel 1944: l’anno in cui Raphael Lemkin coniò il termine “genocidio”. Ma cosa è genocidio? E’ con le 14.000 vittime del “genocidio del Donbas” che la propaganda putiniana ha giustificato l’attacco all’Ucraina; ma lo stesso Putin è tacciato di genocidio per il sequestro di bambini ucraini. Israele è accusato di genocidio per la guerra a Gaza; ma potrebbe essere tacciato di caratteri genocidiari anche quell’attacco del 7 ottobre 2023 che ha innescato la sua risposta. Il Sudafrica, che ha denunciato Israele per genocidio davanti alla Corte Internazionale di Giustizia, è stato accusato da Trump di portare avanti un “genocidio dei bianchi”, anche nell’incontro diretto tra i presidenti. La Turchia, che appoggia la denuncia sudafricana, si rifiuta di riconoscere il genocidio armeno. Sempre alla Corte Internazionale di Giustizia è stata presentata una denuncia alla Germania per complicità nel genocidio di Gaza dal governo di Daniel Ortega in Nicaragua, a sua volta accusato nel 2023 dall’Onu di avere compiuto crimini di “lesa umanità”. A parte essere ipocrite, alcune di queste accuse sono chiaramente farsesche.
Ad esempio, la cifra del Donbas è fatta mettendo assieme tutte le vittime di un conflitto montato per otto anni da agenti del Cremlino: compresi i 4.641 militari ucraini caduti; e compresi i 298 civili del Malaysia Airlines Flight 17 che si trovava in volo tra Amsterdam e Kuala Lumpur e che, ha attestato una sentenza olandese, fu abbattuto per responsabilità di cittadini russi e loro complici locali al servizio di Putin. Anche la sceneggiata di Trump a Cyril Ramaphosa fu appoggiata a un video che in realtà si riferiva alla Repubblica Democratica del Congo. La Corte Penale Internazionale, invece, il 17 marzo 2023 ha emanato un ordine di arresto per Vladimir Putin e anche per la commissaria ai diritti dell’infanzia Maria Lvova-Belova, per la deportazione di minori ucraini. Sono le stesse autorità russe a vantarsi di un comportamento che è espressamente previsto all’articolo II della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio del 9 dicembre 1948, entrata in vigore il 12 gennaio 1951. “Trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro”. Tuttavia, probabilmente proprio per evitare di impelagarsi in un ginepraio la Corte ha preferito attenersi alla definizione di “crimini di guerra”. Mentre per crimini contro l’umanità e “atti inumani” sono stati emanati nel giugno del 2024 gli ordini di arresto per i comandanti delle Forze Armate Russe Viktor Sokolov, Sergey Kobylash, Sergei Shoigu e Valery Gerasimov.
Non si parla di genocidio neanche per gli ordini di arresto che la Cpi il 20 maggio 2024 ha annunciato contro i leader di Hamas Yahya Sinwar, Mohammed Deif e Ismail Haniyeh, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il ministro della Difesa Yoav Gallant. Nel dettaglio, per gli israeliani si parla dei “crimini di guerra di causare intenzionalmente grandi sofferenze, o gravi lesioni al corpo o alla salute o trattamento crudele, uccisione o omicidio volontario come crimine di guerra, e dirigere intenzionalmente attacchi contro i civili a Gaza”, e dei crimini contro l’umanità di sterminio o omicidio, persecuzione e altri atti disumani. Per i palestinesi di “crimini contro l’umanità di omicidio, sterminio, tortura, stupro e altre forme di violenza sessuale; così come per i crimini di guerra di omicidio, trattamento crudele, tortura, presa di ostaggi, oltraggi alla dignità personale, stupro e altre forme di violenza sessuale”. E si aggiunge che “i crimini contro l’umanità facevano parte di un attacco diffuso e sistematico diretto da Hamas e altri gruppi armati contro la popolazione civile di Israele”. Anche se era stata già agitata da una quantità di soggetti, è stato solo il 16 settembre che un’accusa di genocidio a Israele per la guerra a Gaza è formalmente venuta con un rapporto della Commissione Internazionale Indipendente d’Inchiesta del Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, sulla base di quattro dei cinque elementi definiti nel 1948: l’uccisione di membri del gruppo; il causare gravi danni fisici o mentali; l’imposizione deliberata di condizioni di vita volte a provocare la distruzione fisica del gruppo, in tutto o in parte; e l’imposizione di misure volte a impedire le nascite.
La prima occorrenza della parola “genocidio” si trova in “Axis Power in Occupied Europe”, del giurista ebreo polacco Raphael Lemkin
Il rapporto, però, non ha carattere vincolante. E’ un’indicazione per gli stati, e fornisce materiale che le corti internazionali dovranno poi valutare. Ad esempio, il 3 febbraio 2015 la Corte internazionale di giustizia dell’Onu stabilì che per i massacri tra serbi e croati durante la guerra della ex-Jugoslavia l’etichetta di genocidio non può essere utilizzata. Le stragi c’erano state, ma nessuna delle due parti è riuscita a provare che erano state commesse con “l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”. Secondo il giudice Peter Tomka, slovacco, i crimini avevano avuto invece l’obiettivo di “trasferire con la forza” le popolazioni. Insomma, non volevano cancellarli dalla faccia della terra, ma semplicemente che si togliessero dai piedi. Il tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia processò invece per genocidio 21 serbi per il massacro di oltre 8000 ragazzi e uomini bosgnacchi avvenuto nel luglio 1995 nella città di Srebrenica e nei suoi dintorni, ma le condanne furono per gli individui, ritenendo che lo stato jugoslavo non fosse a conoscenza delle sue motivazioni specifiche. Una decisione poi confermata dalla Corte Internazionale di Giustizia.
Sono sfumature che, ad esempio, toglierebbero anche la definizione di genocidio all’espulsione degli italiani da Istria e Dalmazia, e potrebbero essere applicate al comportamento del governo Netanyahu a Gaza. Il punto è che non si sa neanche quante siano le vittime a Gaza, per l’inaffidabilità delle informazioni filtrate da Hamas e l’assenza di vere fonti alternative. Le stime vanno da un minimo di 65.062, che sarebbe il 2,7 per cento della popolazione di Gaza; a 680.000, che è il 28,6. In tre anni, e in un contesto di guerra. Solo nei mesi di agosto, settembre e ottobre del 1942, i nazisti perpetrarono circa mezzo milione di omicidi di ebrei al mese, ovvero 15.000 ebrei al giorno, secondo uno studio pubblicato e condotto da Lewi Stone, professore di matematica all’Università di Tel Aviv. Non era gente che si trovava in mezzo a combattimenti, ma che veniva deportata apposta e raccolta in campo di sterminio anche distogliendo risorse preziose dal fronte. Come in qualche modo spiega il protagonista del racconto di Jorge Luis Borges “Deutsches Requiem”, lo scopo della Germania nazista non era più vincere la guerra ma sterminare gli ebrei, anche al costo di perderla.
Per definire questa logica stravolta Raphael Lemkin mise assieme il sostantivo greco “ghénos”, che si riferisce a razza, stirpe o gruppo di persone, con un suffisso dal latino “caedo”, che significa “uccidere” o “massacrare”. Era nato il 24 giugno 1900 a Vaukavysk: allora parte dell’Impero Russo, poi dal 1919 Polonia, dal 1939 annessa alla repubblica sovietica della Bielorussia, tra 1941 e 1944 occupata dai tedeschi, poi di nuovo Bielorussia, che dal 1992 con lo sfasciarsi dell’Urss diventa indipendente. Lui però non era né russo, né polacco, né bielorusso, ma ebreo. Studiava linguistica, quando il 15 marzo 1921 a Berlino il giovane armeno Soghomon Tehlirian assassinò per strada Talat Pasha: fino a tre anni prima Ministro degli Interni dell’Impero ottomano. Una vendetta per il massacro che aveva colpito il suo villaggio, durante la persecuzione degli armeni durante la Prima Guerra Mondiale. Tra 1915 e 1917, con però prolungamenti fino al 1923, tra un minimo di 600.000 e un massimo di un milione e mezzo di armeni furono uccisi. Se si considerano anche gli espulsi, si arriva al 90 per cento degli armeni dell’Impero ottomano. Così come i 5,1-7 milioni di vittime della Shoah – circa i due terzi della popolazione ebraica in Europa – andrebbero considerati assieme alle tra 130.000 e 1,5 milioni di vittime del contemporaneo Porrajmos – dal 25 all’80 per cento degli zingari d’Europa; anche gli armeni secondo molti studiosi andrebbero considerati assieme alle vittime dei contemporanei genocidi dei cristiani Assiri – 200.000 vittime; e dei greci dell’Asia Minore – tra 300.000 e 1,2 milioni di vittime, pari a un quarto del totale. Anche qui, considerando le espulsioni, il peso dei cristiani all’interno degli attuali confini turchi crollò dal 20-22 per cento del 1914 al 3 per cento del 1927.
“Il giorno più buio della mia vita”, si lamentò Lemkin quando la parola non venne adottata nel verdetto del processo di Norimberga
Non fu il primo genocidio del XX secolo: tra 1904 e 1908 le autorità coloniali tedesche nell’attuale Namibia avevano ucciso tra il 60 e l’81,25 per cento dell’etnia herero e la metà dei nama: tra i 34.000 e i 110.000 morti. Ma fu il caso armeno il primo a coinvolgere le coscienze e a porre il problema. Quasi come indennizzo, dopo la Grande Guerra fu riconosciuta una Armenia indipendente che però durò solo due anni, prima di essere di nuovo spartita tra la nuova Turchia kemalista e la nuova Russia sovietica. Come altri responsabili del massacro, Talat Pasha non era stato processato, ed era potuto andare a vivere in Germania senza problemi. Al processo si riparlò di quello che era successo, e la giuria ne fu talmente scossa che l’assassino fu assolto. Ma anche l’allora ventenne Lemkin ne fu sconvolto, al punto decise di abbandonare gli studi di linguistica per dedicarsi al Diritto. “Mi resi conto che il mondo deve adottare una legge contro tali omicidi razziali o religiosi”, avrebbe spiegato nella sua autobiografia. Sembra peraltro che il caso non avesse fatto altro che precipitare alcune impressioni già avute a 12 anni, nel leggere il “Quo Vadis” di Henryk Sienkiewicz, con i cristiani dati in pasto ai leoni.
Il termine specifico non era ancora nato, e Lemkin nell’iniziare a proporre alla Società delle Nazioni una normativa in proposito parlò di “crimini di barbarie”, “atti di sterminio” compiuti per ragioni “politiche e religiose”, e “vandalismo”. “Quando una nazione viene distrutta, non è il carico di una nave ad essere distrutto, ma una parte sostanziale dell’umanità, con un intero patrimonio spirituale che tutta l’umanità condivide”, scrisse in un documento per la conferenza di diritto penale di Madrid del 1933. Cui però non andò: Hitler era intanto già arrivato al potere, quel tipo di idee espresse da un giurista già famoso avrebbero potuto essere considerate dalla Germania nazista una provocazione, e per evitare grane il governo di Varsavia negò il visto.
Non servì, e nel 1939 la Polonia fu lo stesso invasa. Lemkin riuscì a fuggire, ma i suoi genitori no, e morirono ad Auschwitz. In tutto, perse 49 parenti nell’Olocausto. Ispirato dal racconto delle persecuzioni dei cristiani e di quella degli armeni, Lemkin aveva avuto presente anche l’Holodomor: il genocidio degli ucraini per fame voluto da Stalin, con tra i 3 e i 5 milioni di morti, il 10 per cento della popolazione. Ma a questo punto si rivelò che quella preoccupazione era stata una terribile premonizione. Peraltro, anche Franz Werfel era ebreo austriaco: il romanziere che nel 1933 aveva narrato il dramma armeno nel libro “I quaranta giorni del Mussa Dagh”. A quel punto, la sua determinazione a far tipizzare un crimine specifico, ovviamente, aumentò. Esule negli Stati Uniti, la denuncia dei crimini nazisti divenne una parte importante del suo insegnamento alla Duke University. E nel 1944 pubblicò il libro “Axis Power in Occupied Europe”, in cui descrisse dettagliatamente tutte le atrocità commesse dai nazisti con l’obiettivo di sterminare il popolo ebraico, e in cui compare per la prima volta il termine “genocidio”.
Il fatto che ormai la questione stesse maturando è attestato dal fatto che al processo di Norimberga il termine “genocidio” fu usato dai pubblici ministeri. Non appare però in nessuna delle 190 pagine del verdetto, non essendo ancora contemplato in alcuna normativa. I 18 condannati lo furono per crimini contro l’umanità, non per genocidio. “Il giorno più buio della mia vita”, si lamentò Lemkin. Un anno dopo, nel dicembre 1946, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, appena istituita, approvò la Risoluzione 96, che per la prima volta nel diritto internazionale si riferiva al “crimine di genocidio”, intendendo “la negazione del diritto all’esistenza di interi gruppi umani, proprio come l’omicidio è la negazione del diritto alla vita di un singolo essere umano”. E conclude: “L’Assemblea Generale afferma che il genocidio è un crimine di diritto internazionale che il mondo civile condanna e per il quale i suoi autori e i suoi complici devono essere puniti”. La Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio fu adottata dalle Nazioni Unite nel 1948 e successivamente ratificata da ciascuno degli stati membri, in modo da poter entrare in vigore dal 1951. Il compito di giudicare in merito fu dato alla Corte internazionale di giustizia dell’Aja, istituita nel 1945. Avendo investito tutta la sua vita e tutti i suoi risparmi per raggiungere questo obiettivo, Lemkin quando morì a New York il 28 agosto 1959, a soli 59 anni, era ormai in povertà. Ma lo scopo di far entrare il termine del Diritto Internazionale lo aveva raggiunto.
Come per tutte le leggi, resta il problema di applicarla ai casi concreti. Si può ad esempio parlare di genocidio per cose avvenute prima del caso armeno? Qua si va dalla conquista dell’America alle invasioni mongole, passando per la crociata contro gli Albigesi o per la repressione della controrivoluzione in Vandea. Va ricordato che comportamenti genocidari sono stati rilevati da vari studiosi anche a responsabilità di popolazioni non occidentali: dalla guerra degli Irochesi contro gli Uroni allo sterminio dei Moriari da parte dei Maori o a quello dei mongoli Dzungar da parte dei cinesi. Essendo poi un termine polemico, genocida è stato adottato per una quantità di situazioni e personaggi, dall’aborto a George W. Bush. Un’inflazione che evidentemente finisce per svilire il significato del termine, specie quando viene rovesciata su Israele. D’altra parte, c’è una tendenza di una parte del mondo ebraico a parlare di unicità dell’Olocausto, che finisce per dimenticare come lo stesso Lemkin avesse in mente gli armeni.
La Turchia appoggia la denuncia sudafricana contro Israele ma si rifiuta di riconoscere il genocidio degli armeni, quello che Lemkin aveva in mente
Ma anche l’Holodomr degli ucraini sotto Stalin, secondo lui, aveva caratteristiche tipiche da genocidio, come spiegò in una conferenza. Inoltre, la terminologia stretta della Convenzione non permetterebbe di parlare di genocidio per la Cambogia dei khmer rossi o per il Grande Terrore staliniano, in cui vennero sterminate non etnie ma classi sociali. Infatti fu proprio l’Urss di Stalin a volere quella delimitazione. Con la costituzione del Tribunale internazionale per la Cambogia, però, anche il Diritto Internazionale ha accettato di fatto la definizione proposta dall’olandese Pieter N. Drost: “Genocidio è la distruzione fisica intenzionale degli esseri umani in ragione della loro appartenenza ad una qualunque collettività umana”. La gran parte degli studiosi oggi accetta anche l’idea dell’americano Irving Louis Horowitz sul ruolo chiave della burocrazia: “E' genocidio la distruzione strutturale e sistematica di persone innocenti”.
Una terminologia stretta non permette di parlare di genocidio quando a essere sterminate sono classi sociali invece di etnie
Se non c’è stata di mezzo una programmazione sistematica da parte di un apparato statuale moderno, non si potrebbe dunque parlare di un genocidio in senso stretto. Per questo la tassonomia elaborata dal francese Yves Ternon distingue. Da una parte i quattro genocidi: ebrei e zingari sotto il nazismo, armeni, cambogiani. Dall’altra i massacri genocidari: tutto il resto, compresi Bosnia e Ruanda, e tutto ciò che è avvenuto prima del 1915. E in mezzo l’Unione sovietica dell’Holodomor, delle purghe staliniane e delle deportazioni di popoli, per cui propone la categoria intermedia di democidio.