sterminio per fame in ucraina

Il metodo Holodormor: il discorso del 1953 di Raphael Lemkin

Raphael Lemkin

In un discorso del 1953 il giurista Raphael Lemkin ricostruisce la strategia sovietica di annientamento dell’Ucraina e la carestia indotta negli anni Trenta. L’“iter” del genocidio è lo stesso usato da Putin oggi

Pubblichiamo il discorso che Raphael Lemkin, il giurista che ha coniato il termine “genocidio”, tenne il 20 settembre 1953 dal titolo “Il genocidio sovietico in Ucraina”.

 
“‘Ama l’Ucraina’
Non puoi amare altri popoli
se non ami l’Ucraina”.
Volodymyr Sosyura


Lo sterminio dei popoli e delle nazioni che ha caratterizzato l’avanzata dell’Unione sovietica in Europa non costituisce un tratto nuovo della sua politica espansionista, non è un’innovazione concepita unicamente per uniformare le diversità di polacchi, ungheresi, baltici, rumeni − che ora scompaiono tra le frange dell’impero. Anzi, è stato a lungo una caratteristica presente anche nella politica interna del Cremlino − gli attuali padroni hanno a disposizione abbondanti precedenti nelle operazioni della Russia zarista. Lo sterminio è una tappa indispensabile nel processo d’“unione” che ingenuamente i leader sovietici sperano produrrà l’“uomo sovietico”, la “nazione sovietica” e, per raggiungere l’obiettivo diunificare la nazione, i leader del Cremlino saranno disposti a distruggere le nazioni e le culture che hanno abitato per lungo tempo l’Europa orientale.


Ciò di cui voglio parlare è forse l’esempio classico di genocidio sovietico, il suo più ampio e duraturo esperimento di russificazione: la distruzione della nazione ucraina. Essa rappresenta, come ho detto, l’erede di  crimini zaristi analoghi come l’annegamento di diecimila tatari della Crimea per ordine di Caterina la Grande, lo sterminio di massa da parte delle “SS” di Ivan il Terribile,  l’Oprichnina; lo sterminio dei leader polacchi e dei cattolici ucraini da parte di Nicola I; e le serie di pogrom di ebrei che hanno periodicamente macchiato la storia russa. Ci sono state operazioni simili all’interno dell’Unione sovietica, con l’annientamento della nazione ingrica, dei cosacchi del Don e del Kuban, delle Repubbliche tatare della Crimea, delle nazioni baltiche di Lituania, Estonia e Lettonia. Ciascuno di essi costituisce un esempio della  politica prolungata di liquidazione delle popolazioni non-russe mediante l’eliminazione di  parti selezionate.


L’Ucraina forma una porzione dell’Urss sud-orientale equivalente al territorio di Francia e Italia ed è abitata da circa 30 milioni di persone. Granaio della Russia, la sua geografia l’ha resa una chiave strategica per il petrolio del Caucaso e dell’Iran e per l’intero mondo arabo. A nord, confina proprio con la Russia. Finché l’Ucraina conserva la sua unità nazionale, finché i suoi abitanti continuano a concepirsi come ucraini e a perseguire l’indipendenza, fino ad allora l’Ucraina rappresenta una grave minaccia nel cuore stesso del regime sovietico. Non sorprende che i leader comunisti abbiano attribuito un’importanza fondamentale alla russificazione di questo membro dallo spirito indipendente della loro Unione di Repubbliche, e che abbiano decisodi rifarlo daccapo affinché si conformi al loro modello di un’unica nazione russa. Perché l’ucraino non è e non è mai stato russo. La sua cultura, il suo temperamento, la sua lingua, la sua religione − sono tutti diversi. Ha rifiutato di essere collettivizzato, accettando la deportazione e persino la morte. E dunque per questo è particolarmente importante che l’ucraino sia adattato al modello procustiano dell’ideale dell’uomo sovietico.


L’Ucraina è particolarmente predisposta all’omicidio razziale di gruppi selezionati, per cui la tattica comunista non ha seguito lo schema adottato nelle offensive tedesche contro gli ebrei. E’ una nazione troppo popolosa per essere sterminata completamente con una qualche efficienza. La sua leadership religiosa, intellettuale, politica, le sue élite sono però molto ristrette e dunque sono state facilmente eliminate ed è in particolare su questi gruppi che si è abbattuta tutta la potenza della scure sovietica, con i suoi soliti strumenti fatti di omicidi di massa, deportazioni e lavoro forzato, esilio e fame.


L’aggressione è stata sistematica, con l’intero iter ripetuto di continuo per contrastare ogni nuova esplosione dello spirito nazionale. Il primo colpo fu inferto all’intellighenzia, il cervello della nazione, in modo tale da paralizzare il resto del corpo. Nel 1920, nel 1926 e ancora nel 1930–1933 insegnanti, scrittori, artisti, pensatori, leader politici furono liquidati, imprigionati o deportati. Secondo l’Ukrainian Quarterly dell’autunno del 1948,  soltanto nel 1931 furono spediti in Siberia 51.713 intellettuali. Almeno 114 dei maggiori poeti, scrittori e artisti, i più illustri rappresentanti della cultura della nazione, hanno conosciuto la stessa sorte. Secondo stime prudenti, almeno il 75 per cento degli intellettuali e dei professionisti ucraini nell’Ucraina occidentale, nell’Ucraina carpatica e nella Bucovina sono stati sterminati brutalmente dai russi.


Assieme a questo attacco all’intellighenzia ci fu un’offensiva contro le chiese, i sacerdoti e la gerarchia ecclesiastica, l’“anima” dell’Ucraina. Tra il 1926 e il 1932, la Chiesa ortodossa autocefala ucraina, il suo Metropolita (Lypkivsky) e diecimila membri del clero furono liquidati. Nel 1945, quando i sovietici s’installarono nell’Ucraina occidentale, una sorte analoga toccò alla Chiesa cattolica ucraina. Che si trattasse unicamente di una politica di russificazione è chiaramente dimostrato dal fatto che, prima della sua liquidazione, alla Chiesa fu offerta l’opportunità di fondersi con il Patriarca russo di Mosca, strumento politico del Cremlino.
L’11 aprile del 1945, solo due settimane prima della conferenza di San Francisco, un distaccamento dell’Nkvd circondò la cattedrale di S. Giorgio a Leopoli e arrestò il Metropolita Slipyj, due vescovi, due prelati e diversi sacerdoti. Tutti gli studenti del seminario della città furono trascinati fuori dalla scuola, mentre ai loro professori veniva comunicato che la Chiesa greco-cattolica ucraina aveva cessato di esistere, che il Metropolita era in stato d’arresto e che il suo posto sarebbe stato preso da un vescovo designato dal soviet. Azioni di questo tipo furono ripetute in tutta l’Ucraina occidentale e in Polonia, al di là della Linea Curzon. Almeno sette vescovi furono arrestati o non se ne ebbero più notizie. Nell’area non c’è più alcun vescovo della Chiesa cattolica ucraina in libertà. Cinquecento membri del clero, che si erano riuniti per protestare contro l’operato dei sovietici, furono o ammazzati o arrestati. In tutta la regione esponenti del clero e del laicato furono uccisi a centinaia, mentre quelli mandati ai lavori forzati erano  diverse migliaia. Interi villaggi furono svuotati.Durante la deportazione, le famiglie furono deliberatamente separate, i padri inviati in Siberia, le madri nelle case di mattoni del Turkestan e i figli presso le case comuniste per essere “educati”. La Chiesa stessa, per il crimine di essere ucraina, fu dichiarata un’associazione nociva per il benessere dello stato sovietico, i suoi membri furono schedati dalla polizia sovietica come potenziali “nemici del popolo”. Fatta eccezione per 150 mila membri in Slovacchia, la Chiesa cattolica ucraina è stata ufficialmente liquidata, la sua gerarchia imprigionata, il suo clero disperso e deportato.


Queste aggressioni all’anima del paese hanno avuto e continueranno ad avere gravi effetti sulla mente dell’Ucraina, poiché sono le famiglie del clero che hanno tradizionalmente fornito gran parte degli intellettuali, mentre gli stessi prelati sono stati i leader dei villaggi, le loro mogli hanno presieduto le organizzazioni caritatevoli. Gli ordini religiosi dirigevano scuole, si prendevano cura della maggior parte delle opere di carità.


Il terzo pilastro del piano sovietico riguardava gli agricoltori, la grande massa di contadini indipendenti che sono i depositari della tradizione, del folklore e della musica, della lingua e della letteratura nazionale, dello spirito nazionale dell’Ucraina. L’arma utilizzata contro questo gruppo è forse la più terribile di tutte: la fame. Tra il 1932 e il 1933 cinque milioni di ucraini morirono di fame, una crudeltà disumana che il 73esimo Congresso condannò il 28 maggio del 1934. Si è cercato di liquidare questo apice della crudeltà sovietica come una politica economica connessa alla collettivizzazione delle terre coltivate a grano e all’eliminazione dei kulaki, i contadini indipendenti, che era necessaria. Il fatto, però, è che in Ucraina i grandi coltivatori erano pochi e rarissimi. Come dichiarò lo scrittore sovietico Kossies sull’Izvestiia del 2 dicembre 1933, “il nazionalismo ucraino è la nostra principale minaccia”, e fu per eliminare quel nazionalismo, per instaurare la spaventosa uniformità dello stato sovietico che i contadini ucraini furono sacrificati. Il metodo utilizzato in questa parte del piano non fu limitata a qualche gruppo particolare. Patirono tutti − uomini, donne, bambini. Il raccolto quell’anno fu più che sufficiente a nutrire la popolazione e il bestiame dell’Ucraina, anche se era stato inferiore rispetto all’anno precedente, una diminuzione in larga parte dovuta probabilmente agli sforzi per la collettivizzazione. Ai sovietici, però, serviva una carestia e così dovettero predisporne una, intenzionalmente, attraverso un prelievo di grano da parte dello stato insolitamente elevato sotto forma di tasse. In aggiunta a ciò, migliaia di acri di campi di grano non furono mai mietuti, furono lasciati marcire. Il resto fu inviato ai granai governativi per essere immagazzinato fino a che le autorità non ne avessero deciso la destinazione. Gran parte di questo raccolto, così vitale per la sopravvivenza dei cittadini ucraini, finì esportato per ottenere crediti all’estero.


Di fronte alla carestia nelle aziende agricole, migliaia di persone abbandonarono le aree rurali e si diressero verso le città in cerca di cibo. Presi e rimandati nelle campagne, abbandonarono i loro figli nella speranza che almeno loro riuscissero a sopravvivere. In questo modo a Kharkiv furono lasciati soli diciottomila bambini. In villaggi con una popolazione di mille abitanti ne sopravvissero cento; in altri, ne morì la metà – c’erano venti o trenta morti ogni giorno. Il cannibalismo divenne la normalità.


Come scriveva nel 1933 W. Henry Chamberlain, il corrispondente da Mosca per il Christian Science Monitor: i comunisti videro, in questa apatia e in questo sconforto, un sabotaggio e una controrivoluzione e, con la crudeltà tipica degli idealisti sicuri di stare nel giusto, decisero di lasciare che la fame facesse il suo corso con l’idea che questo avrebbe dato una lezione ai contadini. I soccorsi furono distribuiti con parsimonia alle aziende agricole collettive, ma in quantità inadeguata e così in ritardo che ormai si erano perse molte vite. Si lasciò che i contadini si arrangiassero da soli; e il più alto tasso di mortalità tra questa categoria fornì un argomento molto convincente per confluire nelle aziende collettive.


La quarta fase del processo consisteva nella frammentazione del popolo ucraino attraverso l’introduzione in Ucraina di popolazione straniera e, allo stesso tempo, la dispersione degli ucraini in tutta l’Europa orientale. In questo modo, l’unità etnica sarebbe stata distrutta e le nazionalità mescolate. Tra il 1920 e il 1939 la percentuale della popolazione di etnia ucraina in Ucraina passò dall’80 al 63 per cento. Di fronte alla carestia e alla deportazione, la popolazione ucraina era diminuita in termini assoluti passando da 23,2 a 19,6 milioni, mentre la popolazione non-ucraina era aumentata di 5,6 milioni. Se si considera che l’Ucraina un tempo aveva il più alto tasso d’incremento demografico d’Europa, circa 800 mila unità l’anno, è facile vedere che la politica russa era stata portata a termine.


Sono state queste le tappe principali della distruzione sistematica della nazione ucraina, nel suo progressivo assorbimento nella nuova nazione sovietica. Non c’è stato alcun tentativo d’annientamento totale, che fu il metodo adottato nell’aggressione tedesca agli ebrei. Eppure, se il programma sovietico ha pieno successo, se si riescono a eliminare l’intellighenzia, i sacerdoti e i contadini, l’Ucraina morirà come se fosse stato ucciso ogni singolo ucraino, perché avrà perso quella sua parte che ha conservato e sviluppato la sua cultura, le sue idee, le sue opinioni, che l’avevano condotta e le avevano dato un’anima, che, in breve, l’avevano resa una nazione e non una moltitudine di persone.


Non sono però certo mancate le stragi indiscriminate − semplicemente non erano parti integranti del piano, ma varianti accidentali. In migliaia sono stati giustiziati, in diverse migliaia sono stati risucchiati dalla morte certa dei campi di lavoro siberiani. La città di Vinnitsa potrebbe essere tranquillamente definita come la Dachau ucraina. In 91 fosse giacciono i corpi di 9.432 vittime della tirannia sovietica, persone fucilate dall’Nkvd durante il 1937 o il 1938. Tra le lapidi dei cimiteri, nei boschi, con spaventosa ironia, sotto una pista da ballo, i corpi sono rimasti dal 1937 fino alla loro scoperta da parte dei tedeschi nel 1943. Molte delle vittime erano state dichiarate esiliate in Siberia dai sovietici.


L’Ucraina ha anche la sua Lidice, la città di Zavadka, distrutta dai satelliti polacchi del Cremlino nel 1946. Per tre volte la Seconda divisione polacca attaccò la città, uccidendo uomini, donne e bambini, bruciando le case e sequestrando il bestiame. Durante il secondo raid, il comandante comunista disse a quel che era rimasto della popolazione della città: “La stessa sorte toccherà a chiunque rifiuti di andare in Ucraina. Ordino pertanto che entro tre giorni il villaggio sia evacuato; altrimenti passerò per le armi ciascuno di voi”.


Quando la città fu infine evacuata con la forza, rimanevano solo quattro uomini tra i 78 sopravvissuti. Durante il marzo dello stesso anno, altre nove città ucraine furono assaltate dalla stessa unità comunista e, più o meno, ricevettero lo stesso trattamento.
Quanto si è detto sin qui non riguarda soltanto l’Ucraina. Il piano messo in atto dai sovietici in quel paese è stato e continua a essere ripetuto: è una componente fondamentale del programma sovietico di espansione poiché offre il modo più rapido per far emergere l’unità dalla diversità delle culture e delle nazioni di cui si compone l’impero sovietico. Il fatto che questo metodo porti con sé indescrivibili sofferenze per milioni di persone non li ha fatti desistere dalla strada imboccata. Anche solo per questa sofferenza umana, si dovrebbe condannare come crimine questo metodo di unificazione. Ma c’è di più della sola sofferenza. Non si tratta semplicemente di un’uccisione di massa. Si tratta di un caso di genocidio, della distruzione non solo dei singoli ma di una cultura e di una nazione. Anche se fosse stato possibile realizzarla senza sofferenze, dovremmo essere portati a condannarla, perché la comunità di spiriti, l’unità d’intenti, di lingua e di costumi che formano ciò che chiamano nazione costituiscono uno dei più importanti mezzi di civilizzazione e progresso a nostra disposizione. E’ vero che le nazioni si mescolano e formano nuove nazioni, ma tale mescolanza consiste nel mettere in comune i vantaggi delle qualità migliori possedute da ciascuna cultura. E è in questo modo che il mondo progredisce. 


Infine, a prescindere dalle importantissime questioni relative alla sofferenza umane e ai diritti umani, quel che è riprovevole nei piani sovietici è la criminale distruzione della civiltà e della cultura. Perché l’unità nazionale sovietica non si sta creando attraverso l’unificazione di opinioni e culture, bensì mediante la distruzione completa di tutte le culture e di tutte le opinioni eccetto una − quella sovietica.

Di più su questi argomenti: