
l'editoriale dell'elefantino
Cosa manca a Trump per replicare a Kyiv quello che ha fatto in medio oriente
Ciro il Grande in Europa non è stato né Ciro né Grande. Concessioni a Putin, tagli alle armi e ambiguità hanno indebolito l’Occidente e rinforzato l’aggressore
Vittoria e pacificazione a Gaza dipendono dall’intesa fra Trump e Netanyahu, dalla scelta strategica di imporre a una Hamas sconfitta sul campo, con una vasta coalizione di stati, la logica del negoziato finale e della resa condizionata. Parlando di Ucraina, le circostanze e la storia di cui scriviamo sono diversissime, l’Europa orientale è lontana e differente dal medio oriente, ma quanto non è accaduto invece a Kyiv dipende da una linea che ha contraddetto radicalmente il senso dell’intervento a Gaza. Certo, malgrado la strage di Bucha e altri abominevoli effetti di una guerra spietata, di un’aggressione che ha già fatto infinitamente più morti della guerra dei due anni, nell’indifferenza delle buone coscienze, o quasi, Putin non è Hamas, malgrado abbia deportato in Russia senza pietà migliaia di bambini ucraini, oltre al resto. La forza statale e di alleanze mondiali della Russia che porta la guerra in Europa da ben tre anni non è paragonabile al 7 ottobre, capitolo di una potenziale guerra di sterminio contro Israele bloccata su sette fronti dalla poderosa autodifesa di quel paese, ma la logica di vittoria e pacificazione attraverso un negoziato è la stessa. Schierando l’America con Israele senza tentennamenti, fino alla cooperazione diplomatica e militare su vasta scala, Trump con Netanyahu è riuscito a piegare l’Asse della resistenza cosiddetto, cioè la coalizione di Hamas, Hezbollah e Iran (con la caduta collaterale ma decisiva di Assad in Siria). Invece l’apertura di credito a Putin e la delegittimazione di Zelensky, con il recente crollo del 43 per cento delle forniture militari all’Ucraina e al suo esercito, con i limiti imposti anche dalle amministrazioni democratiche all’uso delle armi trasferite nel teatro di guerra, hanno rinvigorito un aggressore che ha fallito l’obiettivo strategico di una rapida conquista e trascina la guerra con risultati territoriali parziali e precari, ma non ha subìto una pressione sufficiente all’inizio di un vero negoziato di pacificazione e compromesso.
Ciro il Grande in Europa non è stato né Ciro né Grande. Si è anzi esposto all’accusa di lavorare come un sabotatore della linea della libertà europea e della difesa da un’aggressione autocratica, amplificata dalla deterrenza nucleare esibita e minacciata, destabilizzando la coalizione su cui avrebbe dovuto fare perno, l’alleanza con l’Europa occidentale e orientale che si difende, e isolando il paese e la leadership di cui avrebbe dovuto essere partner per una trattativa sensata, con una sua storia particolare e ragioni evidenti. Tutto questo ha ringagliardito la Russia di Putin e indebolito l’America di Trump, oltre a inquinare i legami occidentali ed euroatlantici che sono una forza storica degli Stati Uniti dal 1945. C’è da sperare che a partire dal prossimo incontro alla Casa Bianca con Zelensky sulla questione della fornitura di missili Tomahawk si cambi tutto l’assetto del terzoanno di guerra e si instaurino le condizioni di un vero negoziato di pacificazione e compromesso. Ma alla base di tutto sta la decisione di Trump, che è mancata clamorosamente, di non vellicare le ambizioni dell’aggressore e opporgli all’opposto fermezza in nome delle ragioni dell’aggredito. La ferita che alle ragioni dell’occidente è stata inferta da Putin e dagli errori e ambiguità di Trump nel conflitto, un premio alle ambizioni sbagliate di tipo neoimperiale coltivate dalla leadership russa apertamente, se non sarà magicamente rimarginata, ci vorrà tempo, può essere medicata. E i risultati del would be peacemaker, almeno quelli di una stabilizzazione in Europa sul fronte orientale, potrebbero finalmente arrivare con un effetto egemonico per Washington paragonabile a quello ottenuto con l’armistizio e il piano di pace innescato a Gaza.