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l'editoriale dell'elefantino
Trump e una giornata della vittoria che la memoria conserverà
La forma retorica del nuovo inizio dopo la grande vittoria, che fa amare anche le leadership che si detestano. Dagli Accordi di Abramo agli accordi d'Egitto
La diretta da Israele di ieri, ostaggi liberi e Trump accolto come Ciro il Grande alla Knesset, è stata il più grandioso spettacolo politico immaginabile. Once in a lifetime, come dicono gli inglesi e gli americani. Ore e ore di attesa e di giubilo. Prima la liberazione delle ultime vittime ancora vive del 7 ottobre, i mezzi della Croce Rossa in movimento, gli elicotteri per il trasporto verso gli ospedali, verso le famiglie, le prime fotografie, i sorrisi, gli abbracci tra di loro e con soldati e soldatesse dei giovani rapiti dal concerto interrotto dall’orrore, dal pogrom, quelli che hanno resistito all’ordalia, le cure e il debriefing militare, i sorrisi e gli abbracci con i famigliari, la folla gaudente e piangente nella piazza intitolata agli ostaggi che cantava e ballava. Poi l’assemblea parlamentare, con i discorsi del presidente della Knesset, di Netanyahu, del capo dell’opposizione Lapid, e del liberatore in chief, Donald Trump, retore strepitoso di istinto machiavellico e insieme buffo e witty, spiritoso, uomo di guerra e di pace destinatario di decine di ovazioni e di lodi iperboliche, per una volta credibili e meritate. Non parlo dei contenuti politici ma della forma, il cosiddetto significante che spesso supera il significato, lo assorbe, lo trasforma.
Qui nel vecchio mondo dominano ancora gli echi della filosofia umanitaria vera e farlocca, figlia della realtà spietata dei combattimenti e del suo filtraggio televisivo e social, dell’ideologia antisionista e antisemita che ha fatto irruzione nelle piazze occidentali sotto la maschera della resistenza anticoloniale, della grande menzogna diplomatica del cessate il fuoco unilaterale e dei due stati, della dannazione corretta verso Israele guerriera e il suo leader di guerra Netanyahu, isolati e abbandonati da mezza Europa. A Tel Aviv e a Gerusalemme ieri è stata celebrata, con emozioni popolari di un paese adolescente che non dimentica il genocidio dei suoi nonni e bisnonni, una giornata della vittoria che la memoria conserverà.
L’idea che la forma della celebrazione politica incarna è quella di un nuovo inizio e anche di un nuovo mondo. Chi ha visto e ascoltato non può non averlo capito. Un fiume di parole ha ricondotto, con un’enfasi biblica proporzionata alla famosa sproporzione della lunga e dolorosa guerra, alla sorgente ebraica e giudeocristiana dell’alleanza di pace e giustizia attraverso la forza, cioè la guerra giusta e la deterrenza difensiva. Via dall’inquadratura i leader ambigui, compromessi e ineffettuali del vecchio mondo barcollante come il capo dell’Onu e dell’Unrwa, Guterres, via gli incerti, i tiepidi e gli arresi, come Starmer e Macron e Sánchez, brava gente che ha radicalmente sbagliato la puntata, via i funzionari del diritto internazionale che fa ideologia e politica, via i cattivi maestri e gli intellettuali o clercs della trahison, del solito appeasement pacifista, via i megafoni e i tamburi e le sassaiole e le buone intenzioni dell’odio antisraeliano travestito da pietà in marcia per le vittime civili, da ansia di pace senza giustizia, ma originato dalla solidarietà del mondo postoccidentale con la resistenza dal fiume al mare dei dannati della terra, rappresentati dai mostri del 7 ottobre. Dentro, in sincronia perfetta con la liberazione degli ostaggi e la resa di Hamas nell’ultimo fronte, Trump e Netanyahu.
Nei banchi del governo sedevano i criminali di guerra, a partire dal loro capo. Ma il giorno della vittoria è stato la consacrazione laica del loro crimine nel concetto della giustizia, della sicurezza e della pace ottenuti con il coraggio della decisione politica e del valore militare. Hanno creduto negli Accordi di Abramo, un modo per dire che la questione palestinese si riassorbe nella trasformazione dei fondamenti del medio oriente come lo abbiamo conosciuto almeno dalla fondazione di Israele a oggi. Hanno fatto di quegli accordi, della loro logica estesa ai sauditi, ai qatarini, ai turchi e perfino agli indonesiani, la base per un piano di pace che ha voltato la pagina, oggi in esecuzione con gli accordi d’Egitto. Hanno celebrato con brutalità la liquidazione fisica degli stati maggiori del terrore, di Assad in Siria e del nucleare iraniano, rilanciando la prospettiva di integrare, liberandolo dalla politica nichilista e fanatica dei mullah, perfino l’Iran.
Netanyahu si è presentato per quel che è, un leader di guerra e di pace, la pace della vittoria per la redenzione dall’orrore del 7 ottobre, e chiederà un nuovo e difficile consenso in nome dell’una e dell’altra. Le molte e tragiche vittime civili di questi due interminabili anni sono state evocate solo per attribuirle, com’è sacrosanto, alla feroce tattica di sacrificio popolare e salvezza degli effettivi che ha squadernato la legione dei predoni di Hamas.
Trump ha chiesto al presidente Herzog che il premier sia graziato dalle beghe processuali, sarcastico tra le risate sulle accuse di appropriazione indebita di sigari e champagne, gli ha ironicamente rimproverato il cattivo carattere per cui però è “un grande”, si è mostrato nella sua facies di bambino goloso di gloria e di stratega del potere e dell’immagine che non ha oggi alcun rivale nel mondo. Per un’ora intera, intuendo che la sua retorica (compreso l’elogio del business e del denaro come chiave della sua politica) stava offuscando, con smalto e parecchie buone ragioni, il peggio del vecchio mondo cui appartengo, ho dovuto amare una persona e una leadership che detesto, ma che supera amori e disamori di chiunque per uno strano, pericoloso e promettente carisma scaltro e infantile.


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