
LaPresse
L'editoriale dell'elefantino
Il coraggio di Israele, baluardo contro l'isteria idolatrica di chi se ne frega di Hamas
Nessuno si augura che accada quello che deve accadere: la fine dell’incubo, il rilascio degli ostaggi costretti a scavarsi da soli la fossa nei sotterranei dell’orrore. La fermezza e la tenacia di un popolo contro l’isteria antisionista
A nessuno interessa l’unica notizia che conta, e che sarebbe o si spera sarà l’esito di una strategia di fermezza e di disperata ma inevitabile difesa di Israele dai suoi assassini. La sconfitta di Hamas, ormai accerchiato e incalzato a Gaza City da un esercito che ha perso mille uomini ed evacua i civili dal campo di guerra, il suo disarmo, la sua resa, il rilascio degli ostaggi vivi e morti, per gli abbracci e per i pianti e i kaddish dei superstiti, la ricostruzione di Gaza sotto un’autorità indipendente con i paesi arabi alla testa e l’egida delle Nazioni Unite. La vittoria di Israele e della sua difesa e la sconfitta di Hamas e la distruzione del suo progetto genocidario, compreso in tutto questo la liberazione degli ostaggi, non è oggetto di interesse e di passione.
Non gliene frega niente a nessuno tra quanti si considerano gente umanitaria e militanti dell’antisionismo. Il mondo civilizzato in teoria dovrebbe essere in ansia per ricevere questa notizia, e solo per questo, per accogliere i reduci di una prigionia e di una tortura di due anni nei tunnel, cominciate con l’atroce spargimento di sangue e crudeltà perpetrato da Hamas il 7 ottobre. Questa è o dovrebbe essere l’unica cosa che conta e che rimanda una eco ansiosa nell’aula dell’Assemblea generale dell’Onu: una soluzione militare e politica al dramma della Striscia, possibile solo con la distruzione della banda di predoni e assassini che ha aperto questo tremendo, doloroso capitolo di storia della disumanità. Ieri abbiamo invece assistito a uno spettacolo di isteria collettiva, una miserabile messinscena propagandistica, che di questa fermezza è lo specchio deformante, un’isteria di teatro che ha contagiato visibilmente e strumentalmente le diplomazie di mezzo mondo e più di mezzo mondo. Il capo di Israele si è presentato al podio con un QR Code sul bavero della giacca. Lì c’è la documentazione sul 7 ottobre, l’alternativa era vedere per credere oppure non guardare e urlare al genocidio.
L’aula in cui si riuniscono i rappresentanti e funzionari di un’organizzazione sottomessa all’ideologia, dove è l’Iran a dettare le regole in tema di diritti umani, un’agenzia internazionale incapace di fare il suo antico mestiere, ormai una tribuna di propaganda antisemita per moltissimi dei suoi componenti, si è rapidamente svuotata, dimostrando che l’isteria non ha limiti nell’emozione collettiva ma è generata dalla lucida strategia di intervento nei conflitti degli stati dei terroristi del jihad e nel tentativo di ridurre l’unica democrazia del medio oriente allo stato di nazione paria. Nello sforzo di far scattare il piano psicologico esplicito di Hamas, cioè addossare a Israele le sofferenze procurate a Gaza dall’infame progrom del 7 ottobre 2023 e trasformare le vittime di un genocidio storico, la Shoah, e di un genocidio programmato e teorizzato dal jihadismo, dal fiume al mare, negli autori di un genocidio inesistente, che si esprime in modo blasfemo nel conto delle vittime civili di guerra esposte a favore di telecamera da una banda di terroristi che si nasconde in una rete sotterranea e lascia il popolo in superficie come agnello sacrificale della sua causa di morte.
L’unica replica possibile all’isteria di teatro è la fermezza e la tenacia di un popolo e di uno stato e di una comunità combattente che non accettano, come ha detto Netanyahu, quello che sarebbe identico alla formazione di uno stato del terrore di al Qaida a un miglio da New York all’indomani dell’11 settembre. Non dovevano entrare nella Striscia né colpirla, per risparmiare le vittime civili. Oggi Hamas sarebbe il governo legale e diplomaticamente attivo di uno stato fortezza pronto a replicare il 7 ottobre e i palestinesi il suo ostaggio principale e il pegno della sua sopravvivenza come organizzazione terroristica. Non dovevano entrare a Rafah. Sinwar sarebbe vivo e vegeto con tutto il suo stato maggiore. Non dovevano colpire l’Iran, oggi uno stato prenucleare e guerrafondaio che minaccia la pace e l’equilibrio e la vita degli ebrei dell’entità sionista sarebbe forte e autorevole, insieme con i suoi eserciti di riserva come gli Hezbollah e la Siria di Assad. Non dovevano infine entrare nella città di Gaza, nemmeno muovendosi con lenta circospezione e organizzando l’evacuazione di centinaia di migliaia di civili. E così nessuno si augura che accada quello che deve accadere, a nessuno preme la caduta della tirannia di Hamas sui palestinesi, la fine dell’incubo, il rilascio degli ostaggi costretti a scavarsi da soli la fossa nei sotterranei dell’orrore. Quando tutto sarà finito, e il cuore e la testa delle persone che non hanno smarrito il senso etico della storia e non lo hanno barattato per la buona coscienza autogratificante non vedono l’ora che tutto sia finito al più presto, sarà studiata per anni questa guerra idolatrica dell’isteria contro la fermezza e il coraggio di un popolo.