
LaPresse
L'editoriale del direttore
Il terrorismo che non fa più notizia e i confini superati sull'antisemitismo
Essere indifferenti dinnanzi a un attentato a Gerusalemme è la spia di un confine superato. L'odio contro l'ebreo si trasforma in un sacrificio accettabile per difendere la causa palestinese
La timidezza evidente con cui ieri un pezzo importante dell’opinione pubblica internazionale ha condannato l’attentato terroristico a Gerusalemme, in cui sono state uccise almeno sei persone, è la spia di un fenomeno con cui è necessario fare i conti e che meriterebbe di essere messo in evidenza anche da tutti coloro che, legittimamente, nutrono un sentimento di odio nei confronti di Israele, a causa della tragedia assoluta della guerra nella Striscia di Gaza. Il fenomeno è inquietante, angosciante, spaventoso, ed è un fenomeno intorno al quale è necessario ragionare dopo aver riportato il commento secco offerto dai terroristi di Hamas dopo la strage di ieri: “Sono degli eroi”. Hamas, comprensibilmente, considera “eroi” tutti coloro che cercano di utilizzare le armi del terrore per destabilizzare Israele, e per dividere e lacerare il fronte occidentale, ma tutti coloro che osservando la strage di ieri a Gerusalemme hanno pensato, anche solo per un istante, che Israele in fondo se l’è cercata, e che i nemici di Israele per affrontare Israele hanno il diritto di utilizzare ogni arma a loro disposizione, anche quelle non convenzionali, per così dire, si dovrebbero chiedere se esista o no un confine da non superare per manifestare la propria vicinanza al popolo palestinese. La risposta a questa domanda è sì.
E quel confine viene superato quando, per esempio, l’antisemitismo comincia a non far più notizia, e quando, in definitiva, si trasforma l’odio contro l’ebreo in un sacrificio accettabile per difendere la causa palestinese. Gli indizi per capire se il sostenitore Pal è caduto o meno in questa trappola narrativa sono molti e sono indizi che tendono a essere pericolosamente sottovalutati. Il primo indizio è la tentazione di considerare gli attacchi contro gli ebrei come delle reazioni, quasi inevitabili, causate dall’azione di Israele, o addirittura come delle forme di resistenza odiosa sì ma tutto sommato comprensibile negli equilibri della difesa di una causa più grande. Il secondo indizio, invece, è la tentazione, anch’essa tossica, pericolosa, letale, di considerare ogni segno di solidarietà nei confronti di un ebreo colpito in quanto ebreo come se questa propensione, invero bizzarra, fosse un segno di disattenzione nei confronti della causa palestinese, con l’idea che ogni elemento di empatia nei confronti di un ebreo ucciso in quanto ebreo o linciato in quanto ebreo possa corrispondere a una tensione allentata sull’unica causa umanitaria da difendere, ovvero quella di Gaza. Il terzo indizio, più sottile, lo si identifica nella necessità morale di dover ribadire in ogni occasione possibile il proprio desiderio di veder riconosciuto lo stato palestinese, senza se e senza ma, senza considerare nel modo più assoluto se riconoscere unilateralmente lo stato palestinese al di fuori di qualsiasi trattativa di pace sia o no un grande regalo a chi non riconosce Israele e anche a chi sceglie il terrorismo come arma di lotta politica.
L’indizio successivo su cui sarebbe utile soffermarsi è legato all’uso della parola genocidio e l’indizio da considerare non riguarda coloro che legittimamente seppure a sproposito tendono a creare una simmetria tra l’azione dei nazisti e quella di Israele ma riguarda il dovere morale di considerare come dei nazisti coloro che si rifiutano di utilizzare quell’espressione per inquadrare la tragedia di Gaza e di considerare dei complici da punire dei massacri a Gaza anche coloro che cercano di dimostrare che si può essere sconvolti da ciò che succede a Gaza senza rinunciare a essere sconvolti per ciò che succede da anni, da ben prima del 7 ottobre, in Israele e da ciò che succede da anni, da ben prima del 7 ottobre, per gli ebrei che in giro per il mondo, da tempo, rischiano la vita per il proprio credo. Creare simmetrie tra chi difende il diritto dei palestinesi a vivere una vita normale e tra chi sostiene Hamas sarebbe ovviamente una follia, simile a quella di chi considera un segno di evidente antisemitismo chiunque critichi Netanyahu. Allo stesso tempo rendersi conto di che rischio mortale sia per un Pal minimizzare l’antisemitismo, considerare la violenza contro un ebreo come un’arma di difesa legittima, trasformare l’esercito israeliano nelle nuove SS, svilire la Shoah trasformando Israele in un’entità nazista responsabile di un nuovo Olocausto, non considerare la richiesta di rilascio degli ostaggi come la strada più immediata per arrivare a una pace, chiedere la creazione di uno stato palestinese anche a costo di regalare una vittoria a chi considera necessaria la creazione in medio oriente non di due popoli e due stati ma di un solo stato e di un solo popolo from the river to the sea, non significa solo normalizzare l’odio contro gli ebrei ma significa anche sostenere un’agenda che metterebbe di buon umore i follower di Hamas.
La sostanziale disattenzione sul ritorno del terrorismo contro gli ebrei e sull’esportazione fuori dai confini del medio oriente della nuova Intifada globale è in buona sostanza la spia di un dramma culturale che dovrebbe interessare anche chi si spende in buona fede per la causa palestinese. E così come ogni persona di buon senso che abbia a cuore Israele non possa non chiedersi se ciò che sta facendo Israele nella Striscia di Gaza sia accettabile o no (e la risposta è no) allo stesso modo ogni Pal con la testa sulle spalle dovrebbe forse chiedersi se la propria azione a difesa dei diritti dei palestinesi sarebbe apprezzata o meno da Hamas e dalle canaglie islamiste che finanziano i terroristi. E non essere indifferenti rispetto a un attentato a Gerusalemme potrebbe essere il primo passo per capire se quei confini sono stati superati oppure no.