
La festa delle Forze armate cinesi all'ambasciata cinese a Roma del 24 luglio scorso (foto ambasciata cinese in Italia)
Cosa non torna nei frequenti incontri fra i vertici della giustizia italiana e cinese
Visite reciproche di giudici a Roma e a Pechino – a settembre arriva Zhang Jun, presidente della Corte suprema del popolo della Repubblica popolare, e poi Maurizio Block, procuratore generale militare, volerà nel paese del Dragone. Il nodo delle estradizioni e il caso del cittadino cinese arrestato a Milano accusato di spionaggio dall'Fbi
Martedì scorso Maurizio Block, procuratore generale militare della Corte di cassazione, e Pietro Laffranco, vicepresidente del Consiglio della magistratura militare, sono stati ricevuti dall’ambasciatore della Repubblica popolare cinese Jia Guide nella sede diplomatica di Via Bruxelles a Roma. Qualche giorno prima, Block aveva partecipato al ricevimento per celebrare il 98° anniversario della fondazione dell’Esercito popolare di liberazione cinese. Il dialogo diretto dei massimi livelli della giustizia italiana, anche militare, con le istituzioni giudiziarie della Repubblica popolare si rinnoverà nei prossimi mesi: a settembre ci sarà la visita in Italia di Zhang Jun, presidente della Corte suprema del popolo della Repubblica popolare cinese, e nei mesi successivi una delegazione italiana guidata da Block e Laffranco visiterà la Cina. Questo dialogo diretto con un paese la cui giustizia è in larghissima parte gestita dal Partito comunista cinese e rientrerebbe, dice Block al Foglio, nelle aperture “che per noi sono anche abbastanza normali. La giustizia, sia ordinaria sia militare, si rapporta anche ad altri stati per scambi e confronti di natura culturali e di conoscenza di altri ordinamenti.
Già nei mesi scorsi c’era stato un incontro della Cassazione che si è recata in Cina, con la presidente Cassano e il segretario generale, proprio con questa finalità di conoscenza e di scambi di vedute su problemi di natura giudiziaria”. La prima presidente della corte di Cassazione, Margherita Cassano, ha una certa consuetudine con l’ambasciata cinese in Italia. Il 20 giugno scorso al Palazzaccio è stata ricevuta una delegazione di magistrati cinesi guidata dal vicepresidente esecutivo della Corte suprema del Popolo cinese, Deng Xiuming. Deng è anche vicesegretario del gruppo dirigente del Partito dentro alla Corte, cioè il meccanismo con cui il Partito comunista cinese esercita il suo controllo politico diretto sulla Corte suprema, impedendo di fatto che il potere giudiziario si possa sviluppare come entità indipendente dal Partito. Lo scorso aprile, Cassano è stata in visita ufficiale in Cina con una delegazione italiana e, tra le altre cose, ha tenuto un discorso alla China University of Political Science and Law di Pechino, una delle migliori università di Scienze politiche in Asia, anche se più volte criticata per il sistema di promozione dell’ideologia di Partito e il suo impatto sulla libertà accademica.
L’avvicinamento diplomatico del sistema giudiziario italiano alla Cina arriva in un momento particolare. Il trattato di estradizione fra Italia e Cina, firmato nel 2010, è stato ratificato dall’Italia con la legge n. 161 del 24 settembre 2015. E’ durato poco però: il 6 ottobre del 2022 la Corte europea dei diritti dell’uomo, con la sentenza Liu vs Polonia, ha cambiato tutto, decidendo che qualunque estradizione verso la Repubblica popolare cinese sarebbe in violazione dell’articolo 3 della Convenzione sui diritti umani, quella che proibisce i trattamenti “inumani o degradanti”. E nel 2023 è stata proprio la Cassazione, per prima fra le Corti europee, ad accogliere le indicazioni di Strasburgo: con la sentenza n. 21125 la sesta sezione penale della Suprema corte aveva negato l’estradizione di una donna cinese arrestata in Italia per via di criticità sul rispetto dei diritti umani. Dopo quella decisione, tutte le successive richieste di estradizione da parte della Cina all’Italia sono finite con un diniego, rendendo di fatto inefficace il trattato fra Roma e Pechino.
Del resto, secondo diverse ong e analisi, la Cina fa un uso piuttosto spregiudicato dei red notice dell’Interpol e le richieste di estradizione fanno parte anche della “caccia alla volpe”, un sistema con cui Pechino costringe a rimpatri forzati soggetti invisi al Partito o dissidenti. L’avvicinamento della diplomazia cinese ai vertici della giustizia italiana inizia proprio subito dopo questo nuovo indirizzo giurisprudenziale: alcune fonti sentite dal Foglio ipotizzano che la strategia cinese sia proprio quella di valorizzare, ai fini della propaganda interna, le occasioni di dialogo e cooperazione, invece delle decisioni giudiziarie sfavorevoli.
Ma c’è di più, perché c’è un altro caso che riguarda il nostro sistema giudiziario e che è di grande interesse per Pechino: ieri la Corte d’appello di Milano ha respinto la richiesta di concedere gli arresti domiciliari a Zewei Xu, l’informatico cinese arrestato il 3 luglio scorso all’aeroporto di Malpensa su mandato delle autorità americane, che lo accusano di spionaggio. Il suo, per l’Italia, è un delicato caso a metà tra giustizia e diplomazia.
Pur riconoscendo le differenze di sistemi – soprattutto nell’ambito dei diritti umani – il procuratore Block dice al Foglio che “c’è un interesse reciproco alla conoscenza dei rispettivi ordinamenti”, soprattutto per quel che riguarda la velocizzazione della giustizia ordinaria: “Sotto questo profilo, sicuramente se ci sono degli stati che hanno trovato delle formule che consentono una velocizzazione delle procedure e una migliore organizzazione degli uffici attraverso gli strumenti telematici. Questo ci può servire, può essere per noi un modulo di riferimento”. E fa l’esempio degli altri paesi con cui c’è stata una simile apertura: Arabia Saudita, Armenia, Angola. Il riferimento alla tecnologia applicata ai sistemi di giustizia torna anche in un’altra recente visita, quella compiuta a metà luglio dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione (Anac), Giuseppe Busia, durante la quale è stato firmato un memorandum di cooperazione con la Commissione nazionale di supervisione (Ncs) della Repubblica popolare. Fondata dal leader Xi Jinping nel 2018, la Ncs è una controversa e potentissima agenzia che supervisiona sia i membri del Partito sia i funzionari pubblici, strumento essenziale della campagna anticorruzione di Xi – spesso definite purghe – che ha coinvolto migliaia di funzionari a tutti i livelli. “Grazie alla firma del protocollo”, ha detto Busia dopo la firma, “si potranno condividere prassi ed esperienze specie in materia di digitalizzazione, campo nel quale le istituzioni cinesi hanno raggiunto livelli particolarmente avanzati, applicandole a istituti legati alla prevenzione della corruzione, coniugando trasparenza ed efficienza amministrativa”. L’ipotesi di acquisizione di tecnologia cinese da applicare al sistema italiano è impraticabile: a ostacolare questa ipotesi ci sono le ultime indicazioni del dpcm del 30 aprile 2025 che limita l’introduzione di nuove tecnologie nelle istituzioni pubbliche a paesi alleati e partner. Ma è legittimo domandarsi se il modello giudiziario cinese – tra i meno garantisti, dall’organizzazione opaca e strutturalmente legata al Partito, e considerato particolarmente controverso anche per le modalità di utilizzo delle tecnologie – sia davvero un modello a cui ispirarsi.