
L'editoriale dell'elefantino
Gli spericolati 40 ambasciatori che chiedono il riconoscimento della Palestina meritano i complimenti di Hamas
Comprensibile che molta bella gente non voglia perdere il contatto con il fronte umanitario ma certe prese di posizione, prive di senso dello Stato, fanno il gioco del gruppo terroristico, che apprezza l’obliterazione del 7 ottobre e degli ostaggi nelle sue mani
La lettera dei quaranta diplomatici à la retraite trasuda indignazione morale, roba spessa, grossolana e pericolosa, della stessa pasta di quella che ha portato una folla di stolti e disinformati, in un Autogrill, a maltrattare, a vessare al grido di “assassini” un padre e un figlio sedicenne, ebrei, che sostavano per usare la toilette. Forse scrivendo quel documento i quaranta immaginavano di fare un esercizio di stile diplomatico di tono professionistico elevato, per spingere al grottesco riconoscimento di uno stato di Palestina, oggi, cioè nel momento in cui quella formula si identifica con l’aspirazione di Hamas di “liberare” insieme al fronte umanitario quella terra dal fiume al mare, unico vero progetto di pulizia etnica e di sterminio che Israele combatte secondo un’antica regola etica rabbinica: “E se non sono io per me, chi sarà per me? E se non ora, quando?”. Che Israele non debba sottovalutare ciò che nasce dalla guerra e trasforma la forza legittima in serpente che si morde la coda è sempre più vero, come sanno i suoi veri amici e fratelli, ma è inaudito che la spericolata e ambigua metafora di David Grossman, secondo cui il corso delle cose ha ormai obliterato la loro origine nel pogrom del 7 ottobre, debba essere assunta da una congrega esimia di ex top player della diplomazia italiana.
Macron sta sbagliando ma almeno cerca di implicarsi in un piano che vuole essere competitivo con gli americani e la loro rete di primo alleato di Israele e di paese costruttore degli accordi di Abramo, avendo di mira i sauditi, i diplomatici italiani non hanno nemmeno quel tratto di presunto realismo e di ipotetica effettualità politica, quando chiedono al governo di riconoscere quel che non c’è perché al suo posto nei decenni si è elevata una barriera di terrore, di intolleranza e di odio rappresentata dai “cani” di Hamas, secondo l’espressione usata dal povero Abu Mazen da Ramallah. E poi, da quale cattedra credono di parlare quando denunciano crimini e genocidio con tanto facilismo terminologico e quando abrogano il giudizio su quanto ha originato la guerra a Gaza e la dura lotta per la liberazione degli ostaggi di Hamas? La diplomazia italiana ha notevoli meriti e metodi sofisticati fino al più necessario e completo cinismo, adattati con il lodo Moro e il colonnello Giovannone alla preservazione della sicurezza nazionale nella crisi mediterranea segnata dal terrorismo, ma i suoi rappresentanti dovrebbero riconoscere che nei decenni Europa e Italia sono state messe di lato in tutte le fasi del conflitto e in quasi tutti gli sforzi di negoziato e di pace, Oslo compreso, che non a caso era la sede extraunione del ciclo di trattative più importante. Molti dei firmatari sono legati professionalmente e per così dire politicamente a un ex presidente del Consiglio che si rese celebre per una sua diagnosi, diciamo così, piuttosto improvvisata e tendenziosa, essere il Partito di Dio degli Hezbollah una normalissima forza di governo libanese con cui andare a braccetto, e si è visto come è andata a finire.
Si capisce che molta bella gente non voglia perdere il contatto con il fronte umanitario, definito l’ottavo fronte di guerra di Israele ieri da Fiamma Nirenstein, ma anche operazioni così acrobatiche devono essere corredate da un lessico diplomatico, da una cultura politica e da un senso dello stato che dovrebbero sconsigliare vivamente manifesti in cui si proclama la necessità di rompere con Israele dimenticando l’importanza estrema di alcuni particolari e circostanze, e meritando ad honorem i complimenti di Hamas che apprezza l’obliterazione del 7 ottobre e degli ostaggi nelle sue mani.