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le storie
Voci iraniane in Israele, bloccate tra due mondi, con un filo diretto
I rifugiati iraniani raccontano identità divise, nostalgia e speranze di libertà in un tempo di guerra. Payam, Maryam e Rani vivono sospesi in un filo teso tra passato, presente e un futuro ancora incerto
Tel Aviv. “Perché dovrei andarmene? Sono gli omofobi che dovrebbero lasciare il paese”. Era il 2013 quando lo scrittore iraniano Payam Feili sfidava il regime in un’intervista in inglese per IranWire in cui parlava anche della sua omosessualità. Recluso in casa nella periferia di Teheran, i suoi scritti censurati in patria, molto del suo tempo era dedicato a fantasticare su quello che gli ayatollah chiamano il “piccolo Satana”, l’“entità sionista”. “Il primo e ultimo idiota dichiaratamente gay e antiregime”, come si autodefinisce, dopo poco cedette agli omofobi, abbandonando l’Iran, per toccare con mano quella fantasia remota. Oggi vive in Israele, dopo un travagliato percorso per ottenere lo stato di rifugiato politico, arrivato finalmente cinque anni fa. Una storia di estrema sofferenza e ostinazione che ha dell’incredibile e che Payam, 40 anni, ha raccontato in un mémoire uscito da poco, “Madame Zonà” (“Signora puttana” in ebraico).
Oggi è da Haifa – la città che ospita anche il Centro mondiale della religione Baha’i, un’altra minoranza perseguitata nel suo paese d’origine – che segue con agonia il confronto tra i due nemici giurati, che per lui sono entrambi casa. “Mi sento come tra due mondi, come avere due genitori che ami, che si scannano”, dice al Foglio. “Ma è così per molti persiani, non dico la maggioranza, ma molti: in questa tragedia hanno trovato conforto nel pensiero che forse questa guerra riuscirà a infliggere un duro colpo al regime, che se ne uscirà indebolito, la gente potrà poi ribellarsi. Nessuno vuole vedere la distruzione, ma le persone che sento da dentro l’Iran incolpano innanzitutto gli ayatollah”. E non sono solo i liberali o i laici come lui, è un sentimento diffuso anche tra sostenitori delusi della Rivoluzione. “La maggior parte della gente non sostiene il regime. So che si dice così in Europa, ma non è la mia esperienza dell’Iran. Nell’ultimo decennio la gente, anche quella più ideologizzata, è affamata e per questo il consenso è crollato. Molti ragionano con la mentalità ‘il nemico del mio nemico è il mio amico’, ma non lo diranno mai pubblicamente”.
Maryam (nome di fantasia), 26 anni, è invece una nuova immigrata in Israele. Ebrea iraniana, ha fatto l’aliyah pochi anni fa. Chiede l’anonimato perché il timore per la sorte dei familiari rimasti in Iran è altissimo. Per questo, il contatto diretto con chi è ancora lì si è interrotto con la guerra, ma tramite intermediari ha potuto accertarsi che stanno bene. Chiedo a Maryam se è vero che a Teheran c’è questo orologio che segnala il conto alla rovescia, entro il 2040, per la distruzione del regime sionista. Mi conferma, “ma ogni volta che va via la corrente, il conteggio riparte da zero. Sono ridicoli”. La comunità ebraica persiana, una delle più antiche del medio oriente, si è svuotata di oltre centomila anime con la Rivoluzione. Una buona parte vive oggi in Israele o negli Stati Uniti, ma anche a Milano c’è una comunità. Si stima che circa diecimila ebrei continuino a vivere in Iran, per la maggior parte in età adulta e di estrazione socioeconomica modesta, che non saprebbero come ricostruirsi una vita dignitosa all’estero. Mentre tra i giovani il flusso migratorio negli ultimi anni è più intenso, anche verso Israele, dove però mantengono un profilo basso per proteggere chi è rimasto.
“Era molto difficile la vita in Iran, anche per i musulmani, ma di certo per gli ebrei, diciamo che la nostra cultura è più liberale. Dovevo andare con l’hijab. Qui mi sento a casa, è lo stato ebraico, anche se non è facile nemmeno qui”, racconta Myriam, evidenziando il divario culturale. “Anche se domani Khamenei cadesse, non credo che vedremo il giorno dopo ragazze in giro in minigonna. E’ un percorso. Una buona parte della popolazione è molto conservatrice, la vita lì e in Israele è molto diversa”. Lo shock culturale è uno dei temi del mémoire di Payam: “Non puoi immaginare cosa significhi vivere dove ho vissuto e poi arrivare in un posto come Tel Aviv”, con tutte le sue pecche, specifica, perché poi Payam nella città più liberale di Israele, è andato allo sbando e si è lasciato andare alle droghe, anche a causa dell’aleatorietà della sua condizione di profugo. Maryam conosce la movida clandestina dei giovani, ma dice che non è accessibile a tutti. “Sono circoli molto ristretti di persone che si conoscono, e in genere sono anche benestanti, perché ci vogliono soldi per fare questo stile di vita in Iran, anche solo per l’accesso all’alcool”. Come Payam, si sente “bloccata tra due mondi, con una enorme preoccupazione per le conseguenze di tutto quanto stiamo vivendo. Ho sempre sperato nella caduta del regime. Ma mai avrei pensato che sarebbe andata così: con un confronto diretto tra lo stato in cui vivo ora e quello da cui provengo”.
A creare un filo diretto tra israeliani e iraniani è Rani Amrani, 43 anni, con la sua Radio Ran, fondata nel 2008. Trasmette solo in persiano e negli anni ha raccolto migliaia di voci da dentro l’Iran. Quando aveva 10 anni, i suoi genitori hanno pagato una considerevole cifra per farlo scappare, un viaggio clandestino della speranza, fino a raggiungere Israele. Per Rami è una missione: “Sono un ponte tra persiani di tutto il mondo, specie tra chi vive in Iran e Israele”. Anche in questi giorni di massima tensione, riceve le telefonate da dentro l’Iran. “La rete cellulare è limitata, ma con un wifi e una vpn, sono sommerso dagli interventi”. La maggior parte di chi chiama ha un amore per Israele o per la cultura ebraica. “Ma mi chiamano anche per insultare. In questi giorni ho avuto alcune conversazioni interessanti con gente che inneggiava alla distruzione di Tel Aviv, mi mandavano i video di piloti israeliani presi in ostaggio o delle città rase al suolo, e io spiegavo che è tutta propaganda. Alcuni mi hanno ascoltato, erano scioccati”.
Payam e Rami credono che ancora ci sia speranza per una rivolta interna. Maryam dice che non sa più cosa aspettarsi: “Ho paura per tutti, qui e lì. Magari i pasdaran facessero come fece allora lo scià, lasciando il paese. Spero possa accadere qualcosa, sogno di poter tornare a visitare il paese in cui sono nata”.