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Indo-Pacifico

Dalla Nato al G7, l'Asia orientale messa alla porta nelle crisi globali

Giulia Pompili

Xi Jinping vuole la sua parata militare per mostrare le sue nuove capacità di combattimento, mentre Tokyo e Seul disertano il vertice dell’Alleanza atlantica. Guai in vista

Seul. I leader dei paesi dell’Indo-Pacifico più vicini all’Europa e all’occidente hanno saltato l’ultimo vertice Nato, sebbene negli ultimi anni abbiano partecipato a tutti i summit, anche non essendo parte dell’Alleanza atlantica, ma soprattutto per manifestare la connessione dei vari scenari regionali.  E’ stata una notizia molto commentata: l’ultimo ad annunciare la cancellazione del suo viaggio all’Aia, già previsto e programmato, è stato il primo ministro giapponese Shigeru Ishiba, che nei giorni scorsi non ha né approvato né condannato lo strike sull’Iran dell’America. Nel frattempo, il governo di Tokyo ha fatto trapelare un crescente malumore per le richieste di Washington di aumentare le spese militari giapponesi al 3 per cento. Anche il neopresidente sudcoreano Lee Jae-myung e il primo ministro australiano Anthony Albanese hanno deciso di non prendere parte al summit dell’Alleanza atlantica.

La regione dell’Indo-Pacifico era stata già marginalizzata durante l’ultimo G7 dei capi di stato e di governo in Canada, e dopo anni in cui il governo nipponico aveva promosso il messaggio che “l’Ucraina di oggi è l’Asia orientale di domani”, oggi sembra un altro mondo, con altre regole e nuove crisi. All’inizio della scorsa settimana, in un gesto inusuale e significativo, il ministro degli Esteri giapponese Takeshi Iwaya ha fatto trapelare che il primo luglio, quando sarà a Washington per un incontro dei ministri del Quad insieme con gli omologhi di India e Australia, non si terrà alcun incontro bilaterale in formato “due più due” tra i ministri di Esteri e Difesa di Tokyo e Washington. La situazione è interlocutoria anche in Corea del sud. Il nuovo presidente democratico-populista della Corea del sud, Lee Jae-myung, si muove con una diplomazia che ha definito “pragmatica”: significa che, almeno per il momento, vuole evitare segnali che possano infastidire direttamente Pechino – e la cosiddetta “Nato allargata” era uno di questi. 

Molti osservatori europei hanno sottolineato la cautela con cui la Repubblica popolare cinese sta affrontando la crisi iraniana, nonostante gli interessi diretti di Pechino, per esempio nello Stretto di Hormuz. Ma la volatilità dello scenario internazionale, dice al Foglio un analista con esperienza nei tavoli di diplomazia asiatici, rende la leadership cinese sempre più cauta e concentrata sui suoi interessi regionali: “Quando la luce dell’attenzione si spegne, è allora che Xi Jinping si muove”. Nelle ultime settimane sono saltati diversi vertici con funzionari di Pechino, anche europei, a causa della guerra in Iran. Secondo alcuni questo ripiegamento improvviso della diplomazia cinese potrebbe essere connesso alle voci sempre più insistenti sulla salute del leader Xi Jinping – quasi sempre ricostruzioni piuttosto fantasiose, ma non da escludere a priori stavolta – oppure alla volontà di proiettare attenzione e influenza sulla regione.

Fonti del governo di Seul spiegano al Foglio, per esempio, che la nuova Amministrazione Lee avrebbe voluto portare all’attenzione occidentale il problema della “zona grigia” in cui si sta muovendo Pechino con l’installazione delle tre strutture marittime nel Mar Giallo – la porzione di oceano fra la Cina e la Corea del sud – che servono ufficialmente per la pesca ma che sono, in realtà, strutture per il controllo marittimo simili alle isole artificiali costruite dalla Cina nel Mar cinese meridionale. Per ora, però, la Corea sta cercando di mantenere un atteggiamento interlocutorio con Pechino, in attesa di vedere le prossime mosse di Trump nella regione, con l’ipotesi di un effettivo disimpegno americano nella protezione militare dell’area. Il governo di Seul nega, per esempio, che siano state spostate in medio oriente batterie di difesa aerea Thaad istallate nella penisola come precedentemente annunciato dall’Amministrazione americana – notizia che non è stato possibile né confermare né smentire con il dipartimento della Difesa statunitense. Come in Giappone, anche in Corea del sud il tema di un possibile confronto armato fra la Cina e l’isola de facto indipendente di Taiwan preoccupa l’opinione pubblica, così come la lezione sui negoziati con Washington imparata dalla Corea del nord dopo i bombardamenti sull’Iran. 

Nel giro di pochi anni inizia a vacillare l’idea, costruita nel corso dell’Amministrazione Biden, che le alleanze rafforzate tra le democrazie liberali possano vincere l’assertività e l’aggressività cinese. “Pechino ha capito che lasciando fare Trump l’alleanza si spezzetta da sola”, dice al Foglio un analista politico sudcoreano non autorizzato a parlare con i media della questione. Una prima sveglia forse arriverà il prossimo 3 settembre: Pechino ha indetto per quel giorno una parata militare in occasione del Giorno della vittoria, ovvero la commemorazione della fine della Guerra di resistenza contro l’aggressione giapponese del 1937-1945, e “mostrerà nuove capacità di combattimento come sistemi intelligenti senza pilota, unità di combattimento subacquee, forze cibernetiche ed elettroniche e armi ipersoniche”. Il presidente della Federazione russa, Vladimir Putin, ricambierà il favore che gli aveva fatto Xi Jinping il 9 maggio scorso partecipando alla parata a Mosca, e sarà presente alla parata di piazza Tiananmen. 
 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.