(foto Getty Images)

medio oriente

Il teatro della vendetta di Teheran contro le basi americane. Cosa serve per far finire la guerra

Micol Flammini

La reazione della Repubblica islamica è arrivata: i missili balistici di Teheran sono partiti verso la base americana di al Udeid in Qatar. Gli Stati Uniti erano pronti. Doha coordina e l’Iran proclama la vittoria

L’Aia, dalla nostra inviata. La risposta della Repubblica islamica dell’Iran è arrivata. La televisione di stato, la stessa colpita da un attacco israeliano la scorsa settimana, l’ha proclamata dandole il nome di “Basharat al Fath”, annuncio di vittoria. I missili balistici di Teheran sono partiti verso la base americana di al Udeid in Qatar, poco dopo che il Qatar, il paese più amico dell’Iran in medio oriente, aveva chiuso lo spazio aereo. Dopo l’attacco, il Consiglio supremo per la sicurezza nazionale della Repubblica islamica ha dichiarato che la base è stata polverizzata e che il numero di missili utilizzato è stato pari alle bombe sganciate dagli Stati Uniti contro gli impianti nucleari: quattordici. Occhio per occhio, per Teheran la risposta è stata simmetrica e sufficiente a dichiarare vittoria. Anche la scelta del Qatar ha un senso nella costruzione della mitologia della reazione: le relazioni tra i due paesi sono buone, quindi coordinare un attacco è meno complesso e far arrivare il messaggio agli americani è più diretto. I missili sono stati intercettati. Dopo il bombardamento  degli Stati Uniti contro gli impianti nucleari iraniani, tutto era nelle mani di Teheran, che doveva prendere la decisione di come rispondere, se rispondere, quanto prolungare la guerra. 


Tante scelte da affrontare per un regime che ha il suo capo, la Guida suprema Ali Khamenei, nascosto.  Pochissime persone sanno dove si trova, talmente poche che non sono riusciti a trovarlo neppure per fargli recapitare il messaggio che Donald Trump e Recep Tayyip Erdogan erano pronti a organizzare un incontro che avrebbe potuto prevenire l’attacco americano. Khamenei è la persona a cui spetta l’ultima scelta in Iran,  non è chiaro chi abbia deciso di mettere in scena un attacco contro le basi americani in un paese amico e chiamarlo “Annuncio di vittoria”. Altri attacchi potrebbero essere in preparazione in Iraq o nel Mar Rosso. Prima della ritorsione, in Iran, i caccia israeliani avevano continuato a bombardare. Tsahal aveva colpito Fordo, poi  ha  puntato al quartier generale dei pasdaran, a uno degli ingressi della prigione di Evin, all’orologio che segna quanto manca alla distruzione dello stato ebraico. Sono bombardamenti diversi rispetto ai precedenti, non puntano a distruggere infrastrutture critiche, ma sono un messaggio al regime per fare pressione e accettare di fermarsi, altrimenti cadrà come i simboli della sua repressione. Israele aveva posto un obiettivo finale per la sua operazione Am Kelavi (“Leone che si erge”):  la distruzione dell’impianto di Fordo. I bombardieri americani domenica prima dell’alba hanno colpito il sito, forse il regime aveva fatto in tempo a spostare scorte di uranio, ma il programma nucleare dell’Iran, se non distrutto militarmente, è tornato indietro di decenni. 


Gli strappi del medio oriente sembrano essersi assorbiti dopo la risposta iraniana, che non ha cambiato il programma del  summit della Nato all’Aia. Il segretario generale Mark Rutte, in conferenza stampa, ha detto che la posizione dell’Alleanza è chiara: c’è sostegno per l’operazione americana – Rutte ha detto che l’attacco non è contrario al diritto internazionale – e i paesi membri concordano nel fatto che la Repubblica islamica non deve in alcun modo dotarsi dell’arma nucleare. 

Di più su questi argomenti:
  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)