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una posizione delicata
L'ambivalenza di Trump tra lo slogan isolazionista “America First” e il sostegno a Israele
Spinto da diverse correnti interne al suo partito, per ora il tycoon da un lato segnala la volontà di evitare una guerra diretta con Teheran, dall’altro ribadisce il proprio forte appoggio allo stato ebraico. Ma isolazionismo e non interventismo per i repubblicani risalgono almeno agli anni ’30
Washington. In queste ore di guerra tra Israele e Iran, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump si trova in una posizione estremamente delicata: decidere se rischiare un conflitto aperto con l’Iran, una potenza regionale dotata di una delle capacità militari più avanzate del medio oriente, oppure continuare a sostenere il suo principale alleato, Israele, mentre quest’ultimo colpisce i siti nucleari iraniani. Spinto da diverse correnti interne al suo partito, per ora il presidente adotta una postura ambivalente: da un lato segnala la volontà di evitare una guerra diretta con Teheran, dall’altro ribadisce il proprio forte sostegno allo stato di Israele.
Da un lato, Trump deve fare i conti con una forte base Maga, decisa a evitare a tutti i costi un coinvolgimento americano in conflitti mondiali che non percepisce come propri. Tra i maggiori esponenti di questo movimento ci sono la deputata della Georgia Marjorie Taylor Greene, eletta al Congresso nel 2020; i tycoon mediatici Steve Bannon, fondatore della testata ultranazionalista Breitbart News ed ex consigliere strategico di Trump durante il primo mandato, e Tucker Carlson, commentatore televisivo che vanta uno share di circa quattro milioni di spettatori a puntata. Proprio in queste ore, Carlson e Trump si stanno scambiando minacce e insulti sulle piattaforme social, dopo che Carlson ha criticato duramente un possibile intervento americano, definendolo anti “America First” – a dimostrazione della frattura interna al partito. Anche il vicepresidente J. D. Vance, sebbene in modo più marginale, ha dichiarato apertamente che, per lui, lo slogan “America First” implica anche una visione isolazionista. Lo stesso Trump ha condotto una campagna elettorale promettendo di porre fine ai conflitti mondiali, limitare la presenza americana all’estero – definita uno spreco di risorse – e accusando i democratici di aver dato il via a “guerre infinite”.
L’isolazionismo e il non interventismo nel Partito repubblicano non sono una novità; risalgono almeno al presidente Hoover negli anni ’30 e sono poi riemersi nel paleoconservatorismo di Patrick Buchanan negli anni ’90, stratega e consulente durante le presidenze di Nixon, Ford e Reagan. I repubblicani che aderiscono a questa visione ritengono che un maggiore interventismo americano all’estero comporti più rischi che opportunità, e che l’Amministrazione dovrebbe concentrarsi su questioni interne, come il contrasto all’immigrazione e il miglioramento delle infrastrutture. Durante il suo secondo mandato, Trump ha già dimostrato di muoversi in questa direzione per quanto riguarda il dossier iraniano. Si è più volte distanziato da chi, nel Gop, promuove un approccio più bellicoso verso Teheran (i cosiddetti “falchi”), come Mike Waltz, ex consigliere per la sicurezza nazionale, e il senatore Lindsey Graham. Non è un caso che Trump abbia scaricato Waltz – e non Pete Hegseth – dopo lo scandalo dei messaggi su Telegram. I suoi recenti tentativi di riaprire un canale di negoziazione con Teheran, nonostante fosse stato proprio lui nel 2018 a far crollare il Jcpoa, devono essere letti come un ritorno alla diplomazia per evitare una guerra aperta. Da quando Israele ha avviato l’offensiva contro l’Iran, Trump non ha fornito indicazioni chiare su un eventuale coinvolgimento diretto degli Stati Uniti, cosa che invece servirebbe agli israeliani per portare a termine l’obiettivo di eliminare il programma nucleare iraniano. Al momento, infatti, Israele non dispone dei bombardieri americani B2 e B52 necessari a colpire il reattore di Fordo, situato in profondità nel centro del paese. Secondo alcune fonti, Trump avrebbe anche rifiutato un piano israeliano per l’uccisione della Guida suprema Ali Khamenei, presentato nel fine settimana, segnalando così di non voler alimentare un’escalation militare.
In questi giorni, il presidente ha anche espresso la volontà di mediare tra le due potenze regionali, ipotizzando persino un coinvolgimento del presidente russo Vladimir Putin, e ha pubblicato sui propri canali social messaggi in cui auspica una rapida fine degli scontri. D’altro canto, però, Trump si è mostrato fortemente al fianco di Israele, mostandosi quindi ambivalente su come porsi nei confronti di questa guerra. Ha definito “eccellenti” gli attacchi israeliani contro l’Iran e non ha escluso la possibilità di un coinvolgimento più diretto degli Stati Uniti, soprattutto nel caso in cui obiettivi americani venissero colpiti nella regione.
Quando il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha avvertito Trump dell’attacco imminente, il presidente non si è opposto né ha cercato di fermarlo. Nelle prime ore del conflitto, il Pentagono ha mobilitato caccia per difendere le proprie basi e supportare Israele, ha spostato batterie antimissile Patriot dal Golfo, dall’Iraq e dalla Giordania, e ha autorizzato l’uso di cacciatorpediniere della Marina per intercettare i missili iraniani. Tutte queste azioni indicano che all’interno del Partito repubblicano esiste ancora una forte componente favorevole alla difesa incondizionata di Israele – posizione che Trump condivide per una serie di motivi. In primis, per i legami familiari: sua figlia Ivanka si è convertita all’ebraismo e, insieme al marito Jared Kushner, ha sempre mostrato una profonda vicinanza allo stato ebraico. Poi, per la presenza di circa 700.000 cittadini americani residenti in Israele – un numero pari a circa il 7 per cento della popolazione israeliana – che gli Stati Uniti non possono permettersi di ignorare. A questo si aggiunge una base repubblicana fortemente filoisraeliana, con figure influenti come il presidente della Camera Mike Johnson e il senatore Lindsey Graham che hanno ribadito il diritto di Israele a difendersi.
Infine, il voto evangelico: una fetta importantissima dell’elettorato repubblicano che sostiene Israele per motivi religiosi e vota in modo compatto il Gop.
Questa ambivalenza del presidente Trump non è da sottovalutare. Rischia di indebolire il paese mostrandosi incerto, e di lasciare Israele in una situazione precaria perché senza certezze che gli americani siano al loro fianco al cento per cento. Sarebbe invece auspicabile che Trump adottasse una linea coerente, così da evitare ambiguità operative e offrire a Israele indicazioni chiare su come difendersi al meglio dagli attacchi iraniani.