
(foto Ansa)
scenari
Crisi petrolifera? Perché oggi è diverso dalla guerra del Kippur
Il conflitto tra Israele e Iran potrebbe far scoppiare una crisi nello stretto di Hormuz: ma per adesso i riflessi sui prezzi del petrolio non sono paragonabili al precedente del 1973. Eppure lo scenario peggiore potrebbe portare a un coinvolgimento diretto delle principali potenze mondiali
Hormuz, non Kippur è il nome che angoscia i mercati. Il 1973 è lontano, così diverso economicamente e politicamente, tuttavia una crisi potrebbe scoppiare se la guerra tra Israele e Iran colpirà lo stretto che collega il Golfo Persico al Mar Arabico. Il prezzo del greggio è cresciuto raggiungendo i 78 dollari al barile (a maggio era attorno ai 60 dollari). Ma ieri, quando Israele ha annunciato di avere il controllo dei cieli e mentre le petroliere continuavano a passare indisturbate attraverso lo stretto, il brent è scivolato a 71 dollari. Nulla a che vedere con il raddoppio da 3 a 6 dollari al barile in una settimana, dopo l’attacco convergente di Egitto e Siria che tagliò l’accesso di Israele alla sua principale fonte di approvvigionamento.
Il cartello dei paesi produttori, l’Opec, nel 1973 era unito sotto la leadership dell’Arabia Saudita e decise l’embargo verso tutti i paesi che sostenevano Israele. Non era solo questione di prezzo, ma di quantità. Negli Stati Uniti che stavano perdendo il Vietnam campeggiavano i cartelli “no gas”. L’Europa era in ginocchio. I governi decretavano misure di austerità che restarono anche dopo la fine della guerra con la tregua imposta dall’Onu, mentre i carri armati israeliani erano a poche centinaia di metri dalla strada che collegava Suez al Cairo. L’attacco a sorpresa il 6 ottobre, durante il Giorno dell’Espiazione (Yom Kippur), finì in meno di tre settimane con un tracollo di Egitto e Siria, ma senza creare un equilibrio stabile. Sei anni dopo, la rivoluzione islamica e l’avvento del regime degli ayatollah in Iran scatenarono la seconda crisi petrolifera. Nel frattempo in Occidente l’inflazione era salita a due cifre, con punte del 20 per cento, ed era cominciata una lunga stagflazione che durò fino a metà anni Ottanta. Le politiche neoliberiste e la scoperta di nuovi giacimenti (nel Mare del Nord e nel Golfo del Messico) cambiarono di nuovo i rapporti di forza.
Oggi il petrolio non manca, gli Usa sono i principali produttori grazie alla rivoluzione del fracking. L’Opec controlla ancora il 79 per cento delle riserve di greggio e il 35 per cento del gas, ma fornisce solo il 39 per cento del petrolio e il 16 per cento del metano. L’organizzazione è divisa per interessi, strategia geopolitica e posizioni ideologiche. Gli arabi sunniti e gli iraniani sciiti sono divisi da una rivalità storica, anche se c’è stato un appeasement negli ultimi tempi. L’interrogativo è se l’offensiva israeliana sarà un cuneo divaricante o se provocherà un’opportunistica saldatura. I sauditi già nei mesi scorsi avevano aumentato la produzione facendo scendere i prezzi, una mossa interpretata come un gesto di cortesia verso Donald Trump che ha stretto un patto con Riad. Ma se un greggio a buon mercato accontenta il popolo Maga, scontenta i petrolieri texani. Il principe saudita Mohammad bin Salman aveva dato indicazione al fratellastro Abdulaziz, che ha in mano la cassaforte petrolifera, di mettersi al riparo in vista di una resa dei conti: le tensioni armate tra Israele e Iran si erano fatte sempre più intense durante la guerra di Gaza, in risposta all’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023.
I pozzi e le installazioni petrolifere del golfo sono bersagli sensibili. Ci sono i terminali in territorio iraniano, i campi del Kuwait che Saddam Hussein aveva occupato nel 1990-91. Oggi l’Iraq è un regime in mano agli sciiti filo iraniani, mentre allora era nemico; non sia mai che venga spinto a ripercorrere le orme di Saddam. Ci sono poi le otto basi militari americane, inglesi e francesi (Parigi ha già inviato i suoi Mirage). E c’è lo stretto di Hormuz. E’ la mossa disperata che gli iraniani potrebbero tentare, con il risultato di coinvolgere direttamente il Grande Satana: Trump non potrebbe tirarsi indietro e addio speranza di far interpretare a Putin la parte del mediatore. A quel punto anche la Cina che ora sta a guardare, dovrebbe schierarsi, ricomponendo così l’Asse del male. Altro che petrolio, avremmo a che fare con una guerra su vasta scala, più vasta che in Ucraina.



l'asse della resistenza in frantumi