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La demografia della resistenza di Israele, uno stato occidentale in tutto meno che nel tasso di fertilità
Con una crescita demografica sostenuta, lo stato ebraico ha preservato un tasso di natalità elevato nonostante le tendenze globali in calo, consolidando una "demografia della resistenza" come baluardo della propria sopravvivenza e stabilità
Israele è tante cose. E’ anche demografia – meglio: è anche specificità demografica. Quando si parla di Israele come l’unica democrazia di quell’area, come baluardo dell’occidente in medio oriente, non si dovrebbe dimenticare questa specificità, senza la quale è quantomeno dubbio che Israele esisterebbe ancora. E’ il caso di parlarne.
Il 1963 è l’anno in cui si registra il più alto indice di fecondità del mondo moderno: 5,3 figli in media per donna. Tantissimi. Ancora di più a pensare che la cosiddetta soglia di sostituzione, quella che assicura una popolazione pressoché stazionaria, è attorno ai 2,1 figli in media per donna. E infatti la popolazione mondiale crescerà a ritmi notevolissimi, nonostante gli alti tassi di mortalità infantili: in dodici anni da quel 1963 il mondo acquisterà un miliardo di abitanti in più, passando da 3,1 a 4,1 miliardi. E continuerà a macinare aumenti fino agli oltre 8 miliardi di oggi – quando ormai sappiamo, tuttavia, che tempo un altro mezzo secolo e la fecondità scenderà sotto la soglia di sostituzione, cosicché, dopo aver toccato i 10 miliardi, la popolazione mondiale entrerà in una fase di recessione sulla quale è buona regola non azzardare giudizi e previsioni.
In quello stesso 1963 le differenze continentali e regionali sono enormi – amplificate se possibile dai valori record della fecondità. Si va dai 2,5 figli in media per donna dell’Europa ai 6,7 dell’Africa: un divario di 4,2 figli in media per donna che spiega le diverse tendenze demografiche di queste due grandi aree del mondo.
In ogni area e regione del mondo si superano largamente i due figli in media per donna e la popolazione è ormai entrata in una fase di crescita che non sembra incontrare ostacoli. Questo panorama di alta fecondità e grande aumento della popolazione mondiale ispirerà, tra l’altro, tutta una letteratura catastrofista che troverà nel libro dell’entomologo già professore dell’Università di Stanford Paul R. Ehrlich, “The Population Bomb”, il suo vessillo più sgargiante nel vento delle vendite e più sballato nella bonaccia della realtà: prevedeva sfracelli, popolazioni affamate, milioni morti in più, risorse in esaurimento irreversibile: non ne ha azzeccata una. Come sappiamo, l’aumento della popolazione è andato di pari passo con l’aumento della speranza di vita o vita media in tutto il mondo, anche nelle aree economicamente più depresse e dalle condizioni socio-politiche più disastrate.
Ma c’è un angolo di mondo che mostra da sempre, da quando si hanno statistiche di buona attendibilità anche per paesi senza servizi statistici degni di questo nome, la sua peculiarità consistente in una fecondità ancora più alta, sistematicamente più alta di quella mondiale e della stessa regione geografica in cui è situata. In medio oriente in quel 1963 record la Palestina (stato di Palestina, per alcuni) arriva addirittura a 7,8 figli in media per donna; mentre Israele si ferma a 4,1. Soltanto lo Yemen e il Ruanda, quell’anno, superano, di pochissimo, la Palestina. Ma a suo modo è altrettanto eccezionale il dato di Israele: 4,1 figli in media per donna è infatti un valore al quale nell’intero occidente non si trova un solo stato che sia capace di avvicinarsi. Solo gli Stati Uniti, con 3,4 figli, e l’Australia, con 3,3 figli in media per donna, non sfigurano del tutto nel confronto pur se il divario è quasi di un figlio in media per donna. La Francia, altro campione della fecondità occidentale, sfiora i 2,9 figli. Lontanissima da Israele. L’Italia ha lo stesso valore dell’Europa: 2,5 figli in media per donna: 1,6 figli e il 40 per cento in meno della fecondità di Israele. Altri valori, altre società, potremmo dire. Eppure Israele, si ripete, è uno stato pienamente occidentale. Che però non rientra, per questo aspetto, nei canoni occidentali. Se ne distacca già dalla sua istituzione. E non vi rientrerà. Che è come dire che mai è stato nel corso di tutta la sua esistenza inquadrabile nei canoni occidentali della fecondità.
Sessant’anni dopo, nel 2023, nel mondo i figli in media per donna sono scesi a 2,2, perdendo oltre 3 figli e circa il 60 per cento della fecondità del 1963. In Europa si è scesi a 1,4 figli; in Italia ad appena 1,2 figli. Non è più lo stesso mondo. Non certamente sotto l’aspetto della fecondità, che dal 1963 non ha fatto che diminuire, assottigliandosi di anno in anno. Più della metà dei paesi e delle aree del mondo ha già oggi un tasso di fecondità sotto la soglia di sostituzione. La Palestina e Israele non sono sfuggiti a questa formidabile tendenza alla contrazione del numero medio di figli per donna. Ma lo hanno fatto in modi diversi. La Palestina piegandosi pienamente a questa tendenza; se non proprio accentuandola. Israele opponendovisi, cercando di resisterle. La contrazione della fecondità non è stata la stessa per entrambi. La Palestina è scesa da 7,8 agli attuali 3,3 figli in media per donna; Israele da 4,1 agli attuali 2,8 figli in media per donna. Nei sessant’anni tra il 1963 e il 2023 la Palestina ha perso 4,5 figli; Israele 1,3 figli in media per donna. La prima ha visto la sua fecondità crollare di poco meno del 60 per cento; la fecondità di Israele è scesa del 31 per cento, la metà.
Ma concentriamoci sui dati di Israele. Certo Israele ha perso 1,3 figli in questi sessant’anni, mentre l’Europa ne ha persi 1,1 e la stessa Italia – agli ultimi posti nel mondo quanto a fecondità – 1,3, esattamente quanti Israele. Ma occorre considerare le diverse basi di partenza. Così se Israele ha perso il 31 per cento della sua fecondità, nel frattempo l’Europa ha perso il 44 per cento e più del 50 per cento ha perso l’Italia. Ai campioni occidentali della fecondità non è andata meglio: la Francia ha perso in proporzione quanto l’Europa; gli Stati Uniti e l’Australia, sempre in proporzione, quanto l’Italia. In altre parole: pur partendo da più alti livelli di fecondità, Israele ha perso in proporzione, nella tendenza discendente della fecondità, meno figli di quanto è successo all’Europa e a tutto il mondo occidentale. La qual cosa sta a significare che la specificità di Israele, nel mondo occidentale, è venuta piuttosto accrescendosi che riducendosi. Sessant’anni fa la fecondità di Israele sopravanzava le punte più avanzate della fecondità occidentale, quella americana e australiana, di 0,8 figli in media; oggi le sopravanza di 1,2 figli. Sessant’anni fa c’erano 0,8 figli di differenza, a favore di Israele, tra Israele e i paesi occidentali con la più alta fecondità; oggi tra Israele e quegli stessi Paesi il distacco è salito a 1,2 figli in media per donna. E, per capire quanto sia alto questo distacco, basti pensare che esso equivale alla fecondità delle donne italiane, ed è poco più basso della fecondità delle donne europee nel loro insieme.
Dunque, Israele è un’eccezione. Tutti questi dati stanno lì a dimostrarlo. Lo era sessant’anni fa, lo è ancora oggi, pur in quadro generale di più bassi tassi di fecondità rispetto a quando la fecondità faceva faville e la popolazione del mondo entrava di gran carriera nel tempo del grande balzo in avanti.
La peculiarità israeliana della fecondità si è tradotta, a proposito di grande balzo in avanti, in un formidabile aumento della popolazione dello stato di Israele che, partito con 1,3 milioni di popolazione nel 1950, è arrivato ai 9,2 milioni di oggi. E se la popolazione mondiale nel frattempo è aumentata di 3,3 volte passando da 2,5 a 8,2 miliardi, quella israeliana è aumentata di 7,1 volte: balzo non da salto in alto, come potrebbe essere quello della popolazione mondiale, ma da salto con l’asta. L’aumento della popolazione israeliana supera abbondantemente anche quello della popolazione della Palestina, che pure nel lungo periodo tra il 1950 e oggi schizza, si può ben dire così, da 0,9 a 5,4 milioni: però aumentando di “solo” sei volte, contro le oltre sette volte di Israele. Inutile di fronte a queste cifre cercare per Israele un qualche termine di raffronto nell’occidente: l’Europa cresce di 1,4 volte; gli Stati Uniti di 2,3 volte.
La peculiarità israeliana se si guarda all’aumento della popolazione è tale da imporre una domanda che ha una doppia possibilità di risposta: facile o difficilissima. A scelta. La domanda è ovviamente questa: che cosa ha portato Israele a questi dati di fecondità e popolazione? Quali elementi, quali fattori, quali cause? La risposta complessa, e quasi impossibile da fornire, consiste nel passare in rassegna gli elementi, i fattori, le cause fino a poter dire dove, in quali punti critici, e magari pure quando e come, è venuta manifestandosi prima e sviluppandosi poi la peculiarità demografica israeliana. La risposta semplice consiste nel tracciare un frego su elementi, fattori, cause per scegliere una sola parola: resistenza. La popolazione di Israele, non solo lo stato di Israele nelle sue articolazioni e uomini di governo, ha sempre saputo, sin dagli inizi dell’avventura della formazione dello stato ebraico, che sul territorio che le era stato assegnato non avrebbe potuto semplicemente vivere e prosperare, avrebbe dovuto anche resistere. E che per resistere in quell’area il numero non era indifferente, non era indifferente l’entità della popolazione in rapporto a quella dei suoi confinanti e vicini, a cominciare dalla Palestina – dallo stato della Palestina. Lo ha sempre saputo. E’ in certo senso nel suo Dna. Questo ha fatto la differenza, la peculiarità demografica israeliana.
Chi cercasse la radice di questa peculiarità nella specificità delle politiche demografiche israeliane, nelle misure nataliste dei governi di quel paese, va incontro inevitabilmente a una delusione. Che cosa può mai esserci in fatto di politiche demografiche nataliste che stati come la Francia e la Svizzera, la Germania e la Svezia, il Canada o il Giappone non abbiano a loro volta sperimentato? Che cosa più in generale il mondo cosiddetto occidentale ha ancora da scoprire per cercare di facilitare in ogni modo la natalità? D’accordo, le misure possono essere adottate in diverse proporzioni le une con le altre, ma si può mai arrivare a pensare che tali sottigliezze possano determinare un numero medio dei figli della donna israeliana doppio di quello della donna europea? Impossibile anche soltanto da immaginarla, una cosa così. Inoltrarci per questa strada è dunque condannarci a non capire la sostanza della questione. E la sostanza si riduce, a stringere, a quella parola, resistenza; a quel resistere che porta filato, una volta che sia diventato coscienza collettiva, comune sentire, a una diversa demografia, a una “demografia della resistenza”.
D’accordo, mai si è sentito dire di una demografia della resistenza. Bene, è forse arrivato il momento, anche in considerazione di quel che sta succedendo in quell’area e che mai come adesso chiama in causa la resistenza di Israele – lo stato, il popolo – di parlarne.
Il rischio che qualche sprovveduto, o fin troppo malizioso, possa avvertire nella demografia di Israele echi delle politiche nataliste degli stati totalitari che furono – quello fascista, quello nazista; ma non quello comunista, che sulla scia del pensiero marxista prestava una mediocre attenzione alle questioni demografiche – non può impedire che si possa parlare a tutti gli effetti di una demografia della resistenza quando il “numero” della popolazione non è concepito come potenza, e potenza di aggressione, bensì come argine alle sempre possibili, sempre incipienti, aggressioni di altri.
Le differenze sono enormi. Si chiedevano, il fascismo in modo particolarissimo chiedeva, figli per la patria intesa non già come un’entità territorialmente, geograficamente definita bensì in divenire perenne, ovvero come suolo, territorio da conquistare per ampliare lo spazio vitale della patria, per dar vita a imperi. In questo continuo divenire di conquista una popolazione numericamente debordante rappresentava la prima condizione di successo: forze sempre fresche da poter impiegare, inviare sui fronti di guerra, sacrificare in avanzate e ripiegamenti, con le quali rimpiazzare le perdite e ripartire all’attacco. E poi ancora forze adeguate a tenere alto il fronte interno delle produzioni e delle economie di guerra – propaganda e repressione del dissenso comprese.
La demografia della resistenza è un modo di essere sul proprio territorio, non in vista di altri territori, non per occuparne altri, ma per tenere il proprio secondo certi indirizzi e valori condivisi. E’ un sentire, prima ancora che un fare. E diventa un fare giacché si sente di dover fare. Fare dei figli è questione oggi assai lasca, poco stringente nei paesi occidentali, poco sentita. E’ andata perduta nell’occidente l’idea della “necessità” dei figli: non si vede più il perché, la ragione profonda in conseguenza della quale si dovrebbero fare dei figli quando la vita può essere piena e appagante anche senza figli – se non perfino di più senza figli. Diversamente, questa necessità dei figli perdura quando il sentimento della resistenza segue, fosse pure sottotraccia, in certi periodi perfino difficilmente avvertibile, la tua vita e quella della comunità cui appartieni senza staccarsene mai del tutto; senza lasciarle mai del tutto libere di essere vita, vite. E’ un sentimento potente anche quand’è in ombra. E’ come un virus che, contratto, può restare inattivo per chissà quanto tempo, anni, ma senza mai lasciare il campo, pronto a manifestarsi se qualche indicatore ambientale o fisiologico accenna a inclinare verso il rosso. La demografia della resistenza è così principalmente e prima di tutto il frutto di uno stato d’animo vigile, sensibile allo spostamento verso il rosso di indicatori che solo chi deve conviverci è capace di avvertire. Mentre noi al di qua del fossato del pericolo, lontani da quegli indicatori, continuiamo nella nostra minima demografia occidentale.