Alcuni camion attraversano il ponte galleggiante a Gaza (foto LaPresse)

l'inganno di sisi

Se a Gaza arrivano pochi aiuti c'entra l'Egitto. E il molo non funziona

Luca Gambardella

Gli americani accusano il Cairo di avere ingannato tutti sabotando l'accordo per il cessate il fuoco. E mentre Sisi blocca i camion a sud della Striscia, i coloni intralciano il passaggio a nord e il ponte galleggiante costruito dagli americani è già un fallimento

Se Gaza resta senza aiuti umanitari come denunciato ieri dal World Food Program (Wfp), parte della responsabilità è dell’Egitto. Un funzionario dell’Amministrazione americana ha accusato il Cairo di trattenere fuori dalla Striscia cibo e beni di prima necessità inviati dalle Nazioni Unite. “Crediamo che tutto questo materiale non dovrebbe essere respinto, per nessuna ragione – ha dichiarato in conferenza stampa – Il valico di Kerem Shalom è aperto, Israele l’ha mantenuto tale e gli aiuti devono passare”. Anche la frontiera di Rafah è chiusa e così resterà, secondo fonti israeliane sentite dal Times of Israel, finché Tsahal non si coordinerà con gli egiziani. Il presidente Abdel Fattah al Sisi non vuole gli israeliani nel sud della Striscia e soprattutto non vuole dare l’impressione di sostenere in silenzio la loro avanzata. 

Fra il Cairo e Washington il clima è teso da un paio di settimane. Di mezzo non ci sono solamente gli aiuti umanitari. Gli americani accusano l’Egitto di avere sabotato l’accordo per il cessate il fuoco che sembrava fosse stato trovato lo scorso 6 maggio. Israele aveva dato il via libera a un documento finale che poi l’intelligence del Cairo avrebbe modificato di nascosto in alcune sue parti prima di sottoporlo a Hamas, facendo fallire così i negoziati. Secondo fonti citate dalla Cnn, l’intervento dei servizi egiziani avrebbe irritato tutti, Israele, Stati Uniti e persino il Qatar. “Siamo stati tutti ingannati”, ha detto all’emittente americana un funzionario di Washington. Sarebbe stato Ahmed Abdel Khalek, il numero due dell’intelligence del Cairo, ad apportare di nascosto le modifiche al testo dell’intesa, mettendo in grande imbarazzo anche il capo della Cia, William Burns. “L’accordo sembrava a portata di mano”, ha detto la fonte alla Cnn. Invece il tradimento ha portato a congelare le relazioni fra americani ed egiziani perché di fatto da due settimane i negoziati per il cessate il fuoco hanno fatto solo passi indietro. 

Mentre Rafah il Wfp ha chiuso oltre cento punti di distribuzione per mancanza di aiuti, al nord le vie di accesso sono intralciate. Il valico di Erez e il porto di Ashdod sono stati aperti dagli israeliani, ma le proteste di alcuni coloni bloccano il passaggio dei camion. L’alternativa che gli Stati Uniti e Israele avevano trovato era la costruzione del ponte galleggiante a sud di Ashkelon. Invece, il progetto Blu Beach, come lo ha denominato il Pentagono e diventato operativo venerdì scorso, sembra sia già fallito. Martedì il Comando centrale americano ha detto che il primo giorno sono transitati sulla struttura appena 10 camion, mentre sabato solamente altri cinque sono riusciti a raggiungere i magazzini del Wfp incaricato della distribuzione degli aiuti. Altri 11 invece sono stati saccheggiati dai residenti, portando così a zero il totale di operazioni di scarico concluse nei giorni successivi. Le versioni su come siano andate le cose sono contrastanti. Mentre il portavoce del Pentagono, Pat Ryder, ha ammesso martedì di “non ritenere” possibile che nemmeno un pacco di aiuti transitato sul ponte galleggiante abbia davvero raggiunto la popolazione di Gaza, il Wfp invece ha detto che qualcosa potrebbe essere arrivata a destinazione. 

Quel che è  certo è che gli obiettivi umanitari che ci si era prefissati non sono alla portata. Secondo le stime del dipartimento della Difesa americana, se anche il ponte fosse entrato a pieno regime difficilmente sarebbero transitati più di sette camion al giorno, per un totale di circa 150 tonnellate di aiuti. Una goccia in mezzo al mare, dicono le Nazioni Unite, che chiedono invece fra i 500 e i 600 camion al giorno per dare di nuovo sollievo ai palestinesi. 

Eppure il progetto del ponte galleggiante è stata un’impresa titanica sia per spesa complessiva – circa 320 milioni di dollari secondo il Pentagono – sia per sforzo logistico. Fra marzo e aprile sono salpate dagli Stati Uniti tre navi militari che dovevano costruire la struttura dall’altra parte del mondo. Navi di questo genere non sono in grado di tenere velocità sostenute per viaggi interoceanici e questo ha generato ritardi e inconvenienti. La USAV Frank S. Besson ha avuto un guasto meccanico ed è stata costretta a fermarsi alle Azzorre prima di arrivare a destinazione a Cipro. Stessa sorte della USAV Wilson Wharf, che per un guasto si è dovuta fermare a Tenerife. Peggio è andata alla  USNS J. P. Bobo, costretta a rientrare alla base, a Jacksonville, in Florida, per un incendio scoppiato a bordo pochi giorni dopo la partenza. Ciononostante, l’impresa è andata avanti, fino a venerdì scorso quando il ponte è diventato operativo, rigorosamente senza “boots on the ground”, come aveva assicurato Washington. Ma il dubbio su come garantire sicurezza e operatività della struttura è rimasto sempre inevaso. Secondo molti ingegneri navali, una struttura del genere necessita di manutenzione giornaliera con personale a terra. La stessa considerazione vale per tenere al sicuro il ponte. A bordo sono installati sistemi difensivi anti drone e anti granate. Prima della missione si ipotizzava l’impiego di contractor. Girava l’ipotesi della Fog Bow, la società privata gestita dall’ex generale dei Marine Sam Mundy e dall’ex agente della Cia Mick Mulroy. Tutt’ora vige il massimo riserbo sui dettagli del progetto e non è stato rivelato come americani e israeliani abbiano garantito la sicurezza delle operazioni di scarico degli aiuti. 

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  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.