Un tank israeliano pattuglia le strade di Rafah (foto LaPresse)

negli incubi del cairo

Sisi teme che la rabbia per Gaza si tramuti in rabbia contro di lui

Luca Gambardella

Su Rafah il dittatore mostra i muscoli a Israele per mascherare la sua debolezza interna

Abdel Fattah al Sisi guarda le bandiere israeliane sventolare sui tank di Tsahal che pattugliano il valico di Rafah, a pochi metri dal versante egiziano, e teme che quelle immagini che circolano sui social network diventino la miccia di qualcosa di incontrollabile: la rabbia del dissenso in Egitto. L’avanzata israeliana  ha spinto circa 400 mila palestinesi a spostarsi altrove, ad al Mawasi a ovest, oppure a nord, verso Khan Younis e Deir al Balah. Ma delle loro sorti al Cairo interessa il giusto e ciò che conta è invece quel che accade all’interno dei suoi confini, dove la sensazione diffusa è che Sisi si sia dimostrato debole, che il suo impegno per scongiurare l’avanzata degli israeliani sia stato quasi nullo. Nonostante le minacce, agli occhi di molti egiziani la “linea rossa” di Rafah è stata già  superata.

       

“Gli israeliani ci hanno avvertiti troppo tardi”, lamentano fonti egiziane al Wall Street Journal, ventilando un imminente ridimensionamento della cooperazione con Israele, il possibile ritiro dell’ambasciatore, il congelamento degli accordi di Camp David del 1979 e l’adesione alla causa intentata dal Sudafrica alla Corte internazionale di Giustizia – una mossa, quest’ultima, che potrebbe aprire a una serie di altre adesioni nel mondo arabo. Con i colloqui per un cessate il fuoco “quasi in stallo”, come ha ammesso ieri il Qatar, all’improvviso l’Egitto ha assunto una postura apertamente ostile nei confronti di Israele, in risposta all’avanzata su Rafah. Dice il Cairo che l’operazione non era concordata: “Un’escalation inaccettabile”, la definisce al Qahera News, l’emittente televisiva controllata dai servizi segreti, che parla anche di “rinforzi” inviati al confine con Gaza.

 

Da quasi una settimana, l’Egitto ha bloccato il flusso degli aiuti umanitari via terra attraverso il valico della città, almeno finché gli israeliani non si ritireranno. Con l’altro valico ancora chiuso, quello di Kerem Shalom, le Nazioni Unite parlano ora di “situazione catastrofica”. Un video girato da un camionista egiziano e rilanciato sui social dall’ong Sinai for Human Rights mostra centinaia di camion carichi di cibo e beni di prima necessità fermi alla frontiera. Alcuni hanno dovuto disfarsi di parte del carico perché dopo giorni passati ad alte temperature era andato a male. Per molti egiziani quelle immagini sono un affronto alla causa palestinese, perpetrato da un regime che giudicano troppo flemmatico di fronte alla guerra a Gaza.

 

  

Ma fermando gli aiuti umanitari e ogni tipo di collaborazione con Israele, Sisi vuole evitare qualcosa che considera tanto pericoloso almeno quanto l’indignazione del suo popolo: l’umiliazione. Il dittatore non vuole che soldati israeliani controllino i camion egiziani, che si arroghino l’autorità di decidere cosa fare entrare e cosa no nella Striscia. Per questo, l’impegno di Israele era di non gestire direttamente il valico, di delegarne i controlli di sicurezza ad altri. Una condizione finora disattesa, denunciano gli egiziani. Il direttore dello Shin Bet, Ronan Bar, ha detto di volere riaprire la frontiera di Rafah, ma ha chiarito che riaffidarne la gestione a Hamas è un’ipotesi che non sarà presa in considerazione. Uno scoop di Axios ha riferito di una trattativa avviata da Israele per affidare il valico all’Autorità nazionale palestinese, ma in via non ufficiale. Per Abu Mazen è una condizione inaccettabile, però i negoziati proseguono.  


In queste ore le piazze egiziane guardano con fermento ai prossimi sviluppi. Dal 7 ottobre a oggi i servizi segreti del regime hanno arrestato un centinaio di persone, accusate di avere manifestato il loro sostegno ai palestinesi. Sono le proteste universitarie – l’ultima di due giorni fa organizzata all’American University del Cairo –, quelle dei giornalisti e dei sindacalisti a preoccupare il regime. Tra Mansoura e il Cairo, due giovani studenti, Mazen Ahmed e Zeyad al Bassiouny, sono prima stati arrestati e poi fatti sparire dalle forze di sicurezza egiziane per avere diffuso volantini in sostegno ai palestinesi e sono accusati di terrorismo e diffusione di notizie false. Sono queste le crepe che Sisi teme, perché possono accendere il malcontento degli strati medio-bassi della popolazione già sofferenti. Nonostante i milioni di dollari arrivati dal Golfo e dal Fondo monetario internazionale, molti egiziani patiscono l’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità, la mancanza di medicinali e la svalutazione della sterlina. Così la nuova linea della fermezza del regime egiziano nei confronti di Israele va oltre la guerra a Gaza e riguarda la sua stessa sopravvivenza: se l’avanzata israeliana a Rafah dovesse palesare la debolezza di Sisi e il vuoto che si nasconde dietro ai suoi ultimatum lanciati a Benjamin Netanyahu, allora quello sarebbe il punto in cui le proteste contro Israele potrebbero trasformarsi di colpo in proteste contro il regime egiziano. 

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  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.