Donald Trump a processo - foto Getty Images 

In tribunale a Manahattan

Nel labirinto legale di Trump, che mischia furia e capricci. Ma è bloccato lì

Marco Bardazzi

Che cosa lega il silenzio a pagamento, Weinstein, la Corta Suprema e una legge newyorchese sul cianuro. In attesa di giugno

Il labirinto politico-giudiziario in cui Donald Trump ha trascinato l’America diviene ogni settimana più complesso e a meno di duecento giorni dal voto per la Casa Bianca non è per niente chiaro dove si trovi l’uscita. Il processo a Manhattan per i soldi a una pornostar si intreccia con le valutazioni della Corte Suprema sul livello di immunità che la Costituzione concede ai presidenti, costringendo giudici e avvocati ad andare a rileggere processi del passato, alla ricerca di punti di riferimento per orientarsi in una vicenda che non ha precedenti. Nel corto circuito tra politica, giustizia e show che accompagna ogni mossa di Trump, finiscono così per assumere un ruolo anche vicende che sembravano pagine chiuse: come la condanna (appena annullata) al produttore cinematografico Harvey Weinstein per violenze sessuali o il processo all’ex candidato democratico alla Casa Bianca John Edwards. 


Andiamo con ordine, in mezzo al disordine della campagna elettorale più strana degli ultimi decenni. Trump continua a passare le giornate seduto in silenzio in una piccola aula di giustizia a New York, invece di girare l’America per fare comizi. E’ libero di muoversi solo il mercoledì, quando il processo fa un turno di riposo settimanale, e nei fine settimana. Il resto dei giorni non può fare altro che mostrare lo sguardo furioso, mentre accusa e difesa interrogano testimoni nel processo che lo vede imputato di aver nascosto illegalmente la destinazione di 130 mila dollari che nel 2016 sarebbero serviti a zittire la pornostar Stormy Daniels, che voleva vendere ai giornali la storia di una loro relazione sessuale nelle ultime settimane della campagna elettorale che portò Trump alla Casa Bianca. Il reato sarebbe di quelli condannabili con una multa, ma la tesi dei procuratori è che l’allora candidato avrebbe usato i soldi per falsificare e condizionare le elezioni presidenziali.
E’ un approccio ardito, quello dell’accusa, che richiede tra l’altro di dimostrare che non era un caso isolato, ma un  metodo per nascondere notizie sgradite. Per questo la scorsa settimana ha deposto in aula per quattro giorni l’ex editore del tabloid scandalistico The National Enquirer, David Pecker, al quale i procuratori hanno fatto raccontare anche altri episodi analoghi di ricorso al cosiddetto hush money: soldi per silenziare gli scandali con l’approccio catch and kill, cioè comprare il racconto in esclusiva di una storia per poi seppellirlo in un cassetto senza pubblicarlo. Pecker ha parlato tra l’altro di un caso simile a quello di Stormy Daniels, relativo alla vicenda di una modella di Playboy, Karen McDougal, che aveva una storia analoga da raccontare su Trump. E in aula hanno già fatto la loro comparsa riferimenti alla causa giudiziaria che l’ex presidente ha perso contro la scrittrice E. Jean Carroll, che lo ha accusato di violenza sessuale. 


La difesa di Trump, oltre a negare le accuse specifiche, punta a sostenere che se il candidato repubblicano ha cercato in alcune occasioni di mettere a tacere vicende imbarazzanti, lo ha fatto per cercare di proteggere la propria famiglia, per non farle arrivare alle orecchie della moglie Melania o del figlio Barron. Non un approccio facile per gli avvocati: descrivere Trump come buon marito e padre di famiglia è un’arrampicata sugli specchi, che deve fare i conti con le innumerevoli amanti e fidanzate che ha mostrato pubblicamente nelle pause e durante i suoi tre matrimoni. E si scontra anche con la tesi dell’accusa, secondo cui il caso Stormy Daniels era pericoloso per Trump perché arrivava proprio nei giorni in cui era nel pieno della bufera dopo che era circolato un suo audio compromettente, nel quale si vantava di poter fare qualsiasi cosa alle donne grazie al suo status di celebrità. 
La difesa è alla ricerca di precedenti che aiutino Trump e qui emergono gli echi della vicenda di Edwards, ex giovane promessa politica dei democratici, candidato vicepresidente di John Kerry nel 2004 e aspirante presidente negli anni successivi, caduto per una storia simile a quella di The Donald. Edwards è stato accusato di aver raccolto e distribuito hush money proveniente da fondi elettorali, per nascondere una storia d’amore extraconiugale (con nascita di un figlio), avvenuta negli anni in cui sua moglie combatteva il cancro. Un’accusa da cui alla fine l’ex candidato fu assolto, per la difficoltà per l’accusa di legarla alle leggi sul finanziamento alla politica. Trump punta a un epilogo analogo, o almeno a convincere uno dei dodici membri della giuria che non ci sono prove che il suo caso sia niente più di un tentativo di evitare imbarazzi in famiglia. Basta un giurato dissenziente e il processo salta. 
In più ora c’è il precedente del suo ex amico Weinstein, che nei giorni scorsi ha suscitato grande clamore quando la condanna per violenze sessuali è stata annullata da una Corte d’appello divisa 4-3, con rinvio a un nuovo processo. A unire le vicende giudiziarie dell’ex imprenditore immobiliare e dell’ex re di Hollywood, oltre all’approccio al mondo femminile da parte dei due protagonisti, è quella che nello stato di New York è nota come “la regola Molineux”. 


Il riferimento è a un lontano caso giudiziario che fece scalpore nella Manhattan del 1901, quando un rampollo di buona famiglia, Roland Molineux, finì sotto processo per un omicidio a base di cianuro. Molineux, che era un chimico, aveva fatto recapitare una bottiglietta di finto medicinale a Harry Seymour Cornish, il preparatore atletico della squadra locale di football, con il quale aveva una disputa per motivi sportivi. Il preparato conteneva in realtà cianuro e provocò la morte di una cugina di Cornish, che lo bevve pensando fosse sciroppo per il mal di testa. Il successivo processo fu seguito ossessivamente dai giornali locali che si contendevano le storie di yellow journalism, l’equivalente americano della cronaca nera nostrana. Molineux fu condannato a morte, ma mentre attendeva l’esecuzione a Sing Sing una Corte d’appello annullò il processo, perché erano stati ascoltati testimoni e ricostruite vicende relative a precedenti reati dell’imputato. Da allora la giustizia penale newyorchese sta molto attenta a non violare la “regola Molineux” e a concentrare i processi sui dati di fatto relativi al reato di cui si tratta. 
L’annullamento del processo a Weinstein però è avvenuto proprio con un riferimento a quel caso d’inizio secolo scorso, perché contro il produttore sono state presentate come fonti di prova testimonianze relative ad altre vicende, con lo scopo dichiarato da parte dell’accusa di dimostrare che gli abusi di cui deve rispondere a New York sono parte di un trend, sono un modus operandi. Qualcosa di molto simile a quello che adesso stanno facendo in aula i procuratori che accusano Trump.


Il parallelismo tra i casi Weinstein e Trump è emerso subito dopo l’annullamento deciso la scorsa settimana dalla corte d’appello. Sul New Yorker a lanciare l’allarme è stato Ronan Farrow, il giornalista figlio di Mia Farrow e Woody Allen che ha vinto il Pulitzer per le sue indagini sul caso Weinstein. A suo avviso le scelte del giudice Juan Merchan su quali testimoni e documenti accettare nel processo a Trump potrebbero far scattare i limiti della “regola Molineux” anche per l’ex presidente.  
Il procedimento però per il momento prosegue a ritmi sostenuti. Trump sarà costretto a rivestire i panni dell’imputato ancora per altre cinque o sei settimane, prima di arrivare a un verdetto. Se la giuria lo riterrà colpevole, Merchan avrà la possibilità di stabilire una condanna che può arrivare fino a quattro anni di carcere. E anche se i legali di Trump presentassero gli inevitabili appelli e ricorsi, esiste la possibilità che l’ex presidente debba passare da una cella nel pieno della campagna elettorale. Una circostanza unica nella storia americana, che sta costringendo anche il sistema federale di sicurezza a pianificare mosse senza precedenti. Il secret service – che ha il compito di proteggere presidenti ed ex presidenti – secondo il New York Times in queste settimane ha cominciato a tenere riunioni con le varie di forze di polizia, per decidere cosa fare nel caso di una detenzione di Trump: gli agenti devono necessariamente proteggerlo, quindi distaccheranno alcuni uomini in carcere?
Ma a livello federale gli interrogativi sono anche altri. Ci sono due processi in corso contro l’ex presidente, che prevedono reati federali ben più gravi di quello che si discute nell’aula di New York. Uno è quello che dovrebbe essere celebrato a Washington per l’accusa di aver istigato l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021. Un altro attende sviluppi a Miami e riguarda i documenti riservati che Trump avrebbe illegalmente custodito dopo la fine della sua presidenza. Entrambi questi processi potrebbero essere spazzati via da una decisione della Corte Suprema, che la scorsa settimana si è riunita per ascoltare le parti dopo che i difensori di Trump hanno chiesto di annullare le accuse e riconoscere che un presidente è immune da qualsiasi contestazione, quando agisce nel pieno della sua carica. 
Il caso Trump vs United States sull’immunità presidenziale è delicatissimo e la Corte deve pronunciarsi entro giugno, in tempo quindi per avere un impatto importante sulla corsa alla Casa Bianca. Alcuni giudici conservatori, nel corso dell’udienza dei giorni scorsi, hanno fatto capire che ritengono necessario riconoscere un qualche livello di immunità per i presidenti, anche per non creare un precedente che indebolisca in futuro i successori di Trump e Biden. 


Resta da vedere fin dove si spingerà la Corte e come motiverà la propria decisione. Se rinviasse la faccenda a una corte minore, i tempi slitterebbero a dopo le elezioni di novembre (e se Trump vincesse, da presidente potrebbe “assolversi”, facendo cancellare i processi federali). Se venisse riconosciuta a Trump una sostanziale immunità, si sgretolerebbero non solo i processi di Washington e Miami, ma anche quello che si è impantanato in Georgia, nel quale l’ex presidente è accusato di aver fatto pressioni per cambiare il risultato delle elezioni del 2020. E lo stesso processo di New York potrebbe risentirne. 
Un labirinto giudiziario con una sola certezza: entro l’estate si vedrà la via d’uscita, quale che sia.