il caso

La "ministeriale" con Pechino a Verona. C'è un problema di de-risking tra Italia e Cina

Giulia Pompili

Il governo italiano promuove ancora commercio e investimenti con Pechino con un "vertice" a Verona, nell'anno del G7 e mentre le aziende occidentali sono sempre più scoraggiate dagli affari con la Cina

Alla Farnesina e all’Italy China Council Foundation  nessuno vuole parlare né di date né di ospiti. C’è molta segretezza attorno a quello che il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha definito “un grande business forum fra Italia e Cina”, e che sta attirando la curiosità di molti paesi, compresi quelli che partecipano al G7 della presidenza italiana. E non solo perché si terrà a Verona, un mese dopo che la città veneta ha ospitato una delle prime riunioni ministeriali del G7, quella su Industria e Tecnologia, ma anche perché a prendere parte all’evento – che si terrà probabilmente a metà aprile – potrebbe essere il ministro del Commercio di Xi Jinping, Wang Wentao. In pratica una ministeriale Italia-Cina nell’anno del G7: un bel colpo d’immagine per la leadership di Pechino, in difficoltà sul piano internazionale non solo per le sue posizioni sulla Russia.

 

Tajani l’ha detto esplicitamente: il vertice di Verona “servirà a dare impulso al partenariato strategico con la Cina”, l’espressione che indica rapporti diplomatici molto stretti fra due paesi e che ha sostituito di fatto la Via della seta, il grande progetto strategico d’influenza cinese da cui il governo Meloni è uscito silenziosamente (“senza clamore”, ha detto Tajani) a dicembre scorso perché si trattava di “un progetto politico che non portava alcun beneficio al nostro paese”. Ora però il governo Meloni è impegnato a “continuare a lavorare con la Repubblica popolare cinese dal punto di vista strategico”. E infatti c’è un lavorìo costante, anche nei tavoli di lavoro del G7, per tentare di evitare che questo italiano diventi il G7 dove Russia e Cina sono messe quasi sullo stesso piano, anzi: di Cina la parte italiana non vorrebbe proprio mai parlare. Dopo l’uscita dalla Via della seta, Palazzo Chigi teme che gli equilibri delle relazioni diplomatiche siano fragilissimi, mentre altri esponenti di governo vorrebbero intensificare le relazioni economiche ora che gran parte dei paesi occidentali tentano di allontanarsi da Pechino, in quella tradizione tutta italiana di vedere opportunità dove altri mettono in campo il de-risking. E’ anche così che si spiegano i colloqui del ministero del Made in Italy guidato da Adolfo Urso che conferma le trattative con i due colossi cinesi dell’auto, non solo BYD ma anche l’azienda di proprietà di Pechino Chery Auto, nota soprattutto per copiare i modelli occidentali. Ma l’obiettivo del vertice a Verona, dove verranno accolte delegazioni di funzionari cinesi e probabilmente il ministro del Commercio di Pechino, arriva in un momento non solo sconveniente per la presidenza del G7 italiana, ma anche perché il vertice serve più alla Cina che all’Italia. 


Dopo il periodo della politica Zero Covid, la stretta sulle leggi che riguardano la Sicurezza e il controspionaggio e il rallentamento dell’economia hanno reso prioritario, per la leadership di Pechino, cercare di rifarsi il trucco e tornare a essere attrattiva. Secondo diversi analisti è questo il motivo per cui la Cina ha deciso di eliminare l’obbligo di visto per i turisti di ormai quasi tutti i paesi europei, e le compagnie aeree cinesi hanno intensificato i voli abbattendone anche i costi. Ma il turismo non basta a ricostruirsi l’immagine: ieri il Wall Street Journal ha scritto che “l’anno scorso la Cina ha rilasciato 711 mila permessi di soggiorno a stranieri, con un calo del 15 per cento rispetto al 2019, secondo i dati dell’Amministrazione nazionale dell’immigrazione. Il numero di visitatori a breve termine, che include chi viaggia per affari, è calato ancora di più, riducendosi di due terzi nello stesso periodo”. Sean Stein, consigliere senior dello studio legale americano Covington & Burling, che si occupa proprio di rischio legato alla Cina, ha detto al quotidiano di Wall Street che “in passato, la Cina era il luogo in cui accadevano le cose. I dirigenti in ascesa lottavano per venire in Cina”.

 

Adesso invece gli uomini d’affari non vedono alcun lato positivo nell’investire o avere relazioni con la Cina. In America la percezione è molto più forte che in Europa per ragioni anche pratiche: molte aziende americane sono state perquisite e i loro dirigenti fermati e interrogati dalle autorità di Pechino soprattutto negli ultimi mesi, ma anche gli stakeholder europei cominciano a mollare. Jens Eskelund, presidente della Camera di commercio dell’Ue in Cina, ha scritto nell’ultimo position paper che “la fiducia generale nelle prospettive di crescita della Cina si è deteriorata, e le aziende stanno rivedendo al ribasso le loro previsioni. Si sta diffondendo la convinzione che, con il rallentamento della crescita economica cinese e il consolidamento dell’attenzione per l’‘autosufficienza’, solo le aziende straniere operanti in settori che sostengono direttamente gli obiettivi politici della Cina – o quelle che sono temporaneamente necessarie a causa della mancanza di fornitori locali – saranno in grado di prosperare come facevano quando la crescita cinese era a due cifre”. Insomma, tutti scappano, tranne l’Ungheria di Orbán e l’Italia: lunedì prossimo l’Italy China Council Foundation, che è tra gli organizzatori del Summit di Verona, propone già un “incontro esclusivo” con Chen Jian’an, vicepresidente del Consiglio cinese per la promozione del commercio internazionale, che oltre a progetti bilaterali verrà a promuovere anche la seconda edizione del China International Supply Chain Expo, una piattaforma anti de-risking europeo e americano. 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.