il giorno dopo

Il riconoscimento delle elezioni di Putin per l'occidente è una strada senza scampo

Micol Flammini

Il capo del Cremlino celebra i risultati del voto e i dieci anni dall'annessione della Crimea sulla Piazza Rossa. L'87 per cento serve a farlo sentire capace di tutto: di aumentare la pressione in Ucraina, di una nuova mobilitazione di soldati in Russia, di una maggiore repressione del dissenso. Gli oppositori gli vanno bene, purché non vivano nel suo paese

Vladimir Putin è al potere da un quarto di secolo, un lasso di tempo lunghissimo che finora soltanto Caterina II supera ancora. Si è intestato il suo quinto mandato con una percentuale molto alta, più dell’87 per cento: di dieci punti superiore rispetto al 2018. Nessuno si aspettava un risultato diverso, bisognava soltanto attendere le percentuali, perché spiegano molto delle intenzioni del capo del Cremlino che ha voluto dimostrare di avere il pieno mandato popolare per continuare la guerra contro l’Ucraina. Oggi Putin ha celebrato la sua "vittoria" e l’annessione della Crimea nella Piazza Rossa: tutto è stato studiato per far coincidere i due eventi tra concerti e bandiere. Ai russi, quell’87 per cento indica che negli anni a venire le politiche di Putin non cambieranno. Al mondo esterno  indica che Putin non ha  intenzione di dare alle elezioni una parvenza di legalità e la sua prima reazione dopo la chiusura dei seggi è stata quella di dire a un giornalista americano che gli Stati Uniti non sono certo in grado di dare lezioni di democrazia.


La parola democrazia non è uscita dal vocabolario di Putin, anzi se ne è appropriato ormai da anni per stravolgerla e al giornalista americano che gli aveva domandato come fosse possibile definire regolare un’elezione senza rivali politici,  il capo del Cremlino ha detto che gli Stati Uniti non sono nella posizione di dare lezioni, visto che stanno cercando di impedire a un candidato alla Casa Bianca di partecipare alle presidenziali attraverso una lunga trafila di processi. Il giornalista gli aveva domandato anche di Alexei Navalny e Putin, senza scomporsi, ha pronunciato per la prima volta il nome dell’oppositore, fino a quel momento innominato, come tutte le persone a lui sgradite. “Riguardo al signor Navalny”, ha detto il capo del Cremlino, “è morto in prigione, è sempre un evento triste, ma sono cose che possono succedere”. Non intendeva che accadono soltanto in Russia, ma sono cose che sono successe anche negli Stati Uniti. Additare gli americani di ogni stortura è un ritornello che serve a Putin a giustificare le scorrettezze della sua elezione. Novaja Gazeta ha stimato la quota dei voti anomali, ha usato un sistema matematico per cercare di capire il peso delle frodi elettorali: escludendo il voto elettronico, hanno partecipato alle elezioni 75,5 milioni di cittadini e secondo la commissione elettorale 64,7 hanno votato per Putin. Secondo Novaja, che ha analizzato la distribuzione dei voti per i diversi candidati messa a confronto con l’affluenza in ogni singolo seggio, sono almeno 31 milioni i voti contraffatti. A parte il numero, che è il più alto di sempre, è una non notizia e anche i russi che si sono messi in fila per votare a mezzogiorno sapevano bene di non avere alcuna possibilità di cambiare il risultato. L’esercizio elettorale in Russia è una formula estetica, serve a cementare la società attorno a Putin e la decisione di mostrare un gradimento così alto funge da lasciapassare per un presidente che ormai non teme più di chiamare Navalny per nome, anzi cerca di ostentare una forma di empatia per la sua morte, che ha definito “un evento triste”. Ogni voto, più la percentuale di Putin aumentava, più il suo regime si faceva aggressivo fuori e repressivo dentro, ora l’87 per cento verrà usato per dire che tutto ciò che è stato fatto  ha generato consenso, “e potrebbe essere usato per aumentare la pressione contro l’Ucraina, per un regime fiscale che consenta di alzare la spesa per la Difesa, o anche per una nuova mobilitazione”, dice al Foglio Sergey Radchenko, storico della Guerra fredda. 


Putin ha ottenuto le congratulazioni della Cina, della Corea del nord, dell’Iran, del Venezuela. Le democrazie occidentali  hanno parlato di elezioni non trasparenti, ma difficilmente non riconosceranno l’esito del voto, come ha chiesto di fare Yulia Navalnaya. Sono pochi i precedenti del non riconoscimento, uno non è neppure lontano. Dopo le elezioni del 2020 in Bielorussia, molti paesi non riconobbero la vittoria di Aljaksandr Lukashenka, ma le divergenze rispetto alla Russia sono molte: ci sono prove che durante le spoglio, mai finito, la sfidante del dittatore era in vantaggio; l’esito venne seguito da proteste  capillari e partecipatissime; il regime reagì con arresti e uccisioni. Questi elementi mancano in Russia, i paesi occidentali che non hanno riconosciuto Lukashenka hanno tagliato i rapporti diplomatici e i primi a subirne le conseguenze, più che il dittatore, sono stati i cittadini bielorussi che cercavano un visto per fuggire. In Russia mancano tutti gli elementi per  un processo di non riconoscimento, “non è un tema – dice Radchenko – sicuramente non viene riconosciuto l’esito nei territori ucraini che sono sotto occupazione, ma i paesi occidentali dialogano e hanno un rapporto anche con il leader cinese, Xi Jinping, e non hanno mai pensato di tagliare i rapporti perché non è mai stato eletto in un paese in cui il processo elettorale non esiste. Si possono contestare i risultati, le modalità, ma ritenere Putin illegittimo non porterebbe a nulla”. Forte dell’87 per cento, il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, ne ha approfittato per delegittimare Navalnaya: ha detto che chi è all’estero perde le radici e le connessioni, smette di sentire “le pulsazioni del paese”. E’ anche per questo che Putin al giornalista americano ha detto che era favorevole a uno scambio di prigionieri che includesse Navalny con la condizione che  non tornasse più in Russia: l’oppositore lontano è accusabile di tradimento, dà meno fastidio, alle sue accuse si può sempre rispondere che non ragiona più come un russo. Non ragiona più come l’87 per cento della nazione. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.