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La riflessione

Alle radici della Shoah

Lucetta Scaraffia

L’antisemitismo riemerso con forza nel cuore delle società europee ci dimostra che l'elaborazione del genocidio degli ebrei non è stata sufficiente a impedire che la storia si ripetesse

L’antisemitismo riemerso quasi improvvisamente in questi ultimi tempi dal cuore delle nostre società europee – che avrebbero dovuto esserne quasi immuni dopo decenni di insegnamento sulla Shoah, celebrazioni della memoria, libri scritti da ex deportati o dai loro figli e nipoti, alcuni di grande valore letterario – deve indurre tutti a profonde riflessioni. È evidente che quanto abbiamo fatto perché non si ripetesse la tragedia del genocidio ebraico perpetrato dai nazisti non è stato sufficiente, e che forse c’è stato qualcosa da correggere, o almeno sul quale meditare.


Certo la scelta di puntare soprattutto sulla commozione, sul dolore per quello che è accaduto, e sul senso di colpa di far parte dei popoli che, se pure in misura diversa, hanno collaborato al genocidio nazista, non ha funzionato. La naturale tendenza a schierarsi a fianco delle vittime per compassione si può trasformare rapidamente qualora siano indicate dai media vittime più bisognose e meritevoli di solidarietà, come è successo per Gaza. La difficoltà di trasmettere in modo storicamente efficace la storia della Shoah si è verificata anche in ambito ebraico, come racconta magistralmente, con malinconica ironia, Jasmina Reza nel libro Serge, nel quale due generazioni di ebrei francesi di origini russe e ungheresi si recano a visitare Auschwitz per impulso della nipote più giovane. Penso che, per capire meglio le ragioni di questo fallimento, bisogna tornare indietro, a cominciare dal processo di rielaborazione di questa tragedia da parte delle società occidentali e sul ruolo che vi hanno svolto alcuni intellettuali ebrei o su iniziative prese da Israele, come il processo a Eichmann.


Nella cultura occidentale la rielaborazione è avvenuta quasi solo sul piano storico, con una netta tendenza a individuare ogni responsabilità negli sconfitti, cioè nel regime nazista. Sarebbero stati i nazisti i nemici degli ebrei, gli autori della loro rovina, lasciando da parte il ruolo della scienza dell’epoca che, con la nuova disciplina dell’eugenetica, aveva condannato gli ebrei all’inferiorità razziale. L’eugenetica era del resto ampiamente condivisa da tutti i paesi europei: basti pensare che negli anni Trenta non pochi dei premi Nobel della medicina erano eugenisti convinti. E si è lasciato da parte il ruolo, silenzioso ma essenziale, svolto dal tradizionale antigiudaismo cristiano nel permettere una sostanziale accettazione del programma nazista. Se il nazismo era scomparso (a eccezione di piccoli gruppi emarginati), una vera critica scientifica dell’eugenetica – e più in generale nella fiducia acritica in ogni teoria che si presenta come scientifica – non è stata fatta, così come non è stata riesaminato il ruolo svolto dall’antigiudaismo e la sua storia.


Non si è voluto ammettere che la Shoah ha segnato la morte del mito di un progresso continuo, scientifico e culturale, che sembrava ormai permeare tutta la cultura occidentale. Dopo la Seconda guerra mondiale le uniche due realizzazioni del progresso scientifico messe in stato di accusa sono state la morte “tecnologica” attraverso le efficienti camere a gas, e successivamente la bomba atomica. Per quanto riguarda l’utilizzo dei forni crematori, non è inutile ricordare che, comunque, la metà circa delle vittime ebraiche sono state assassinate in modi molto tradizionali. L’esame critico non si è esteso a qualcosa di ben più pericoloso, cioè alla scienza che si trasforma in ideologia, ma in una ideologia pericolosissima perché confermata dal sapere scientifico. O, per meglio dire, da un supposto sapere scientifico. Fa ancora molto male ricordare che nella prima metà del Novecento quasi tutti i paesi occidentali hanno creduto nell’eugenetica, cioè nella scienza che ha stabilito una graduatoria delle differenze fra gli esseri umani, raggruppati in razze, e hanno operato per favorire le razze migliori, così pensando di migliorare l’umanità, cancellare il dolore e la sofferenza. A spese degli esseri umani inferiori, ovviamente. Questo esame di coscienza non è stato fatto, anzi oggi sembra che eugenisti fossero solo i nazisti e quindi, visto che loro non ci sono più, sia risolto il problema. I nazisti invece sono arrivati ultimi sul teatro del sapere eugenetico – la loro bibbia, il libro Vite indegne di essere vissute, era uscito nel 1920 – e non sono stati i primi nel metterlo in pratica, ma anticipati dagli Stati Uniti e da molti paesi europei.


La Shoah dunque ha suonato un campanello di allarme nei confronti dell’uso ideologico della scienza, ma sembra che questo allarme sia caduto nel nulla. Non basta abolire il concetto di razza da tutti i discorsi, scientifici e non, per cancellare una realtà molto più complessa e pericolosa: la fede acritica nel progresso scientifico. Una grande vivacità e profondità intellettuale hanno segnato invece la rielaborazione della Shoah da parte ebraica. Nell’immediato Dopoguerra due giuristi originari della Polonia – le cui famiglie erano state distrutte e che erano stati costretti a fuggire, l’uno, Raphael Lemkin, negli Stati Uniti, l’altro, Hersch Lauterpacht, in Inghilterra – hanno elaborato nuovi strumenti giuridici per il diritto internazionale. Entrambi, pur non conoscendosi, erano animati dallo stesso desiderio: definire un reato che potesse impedire in futuro il ripetersi della tragedia. Lemkin pensò di averlo individuato nel “genocidio”, cioè nell’uccisione programmata di un intero popolo, Lauterpacht nel “crimine contro l’umanità”, che avrebbe dovuto impedire il ripetersi delle atrocità appena avvenute. Queste due definizioni di reato furono prese in considerazione, per la prima volta, nel processo di Norimberga, e poi sono divenute due capisaldi del diritto internazionale, utilizzate per giudicare vari tipi di eventi, in molti dei quali gli ebrei non erano coinvolti. In sostanza, si tratta di un nuovo e importante contributo etico alle regole della convivenza umana. La genesi teorica di queste acquisizioni, intrecciata alle drammatiche vicende dei due giuristi, è magistralmente raccontata dal libro di Philippe Sands La strada verso est.

Un altro suggerimento innovativo sul piano giuridico è venuto dal processo ad Adolf Eichmann, tenuto nel 1961 in Israele. I testimoni invitati a parlare, oltre duecento, erano sopravvissuti della Shoah, invitati in quanto vittime, ma non necessariamente coinvolti personalmente con Eichmann o con istituzioni che a lui facevano capo. Nasce allora una nuova categoria giuridica e morale: quella di vittima, che in quanto tale chiede giustizia. Negli anni Ottanta il termine “vittima” è introdotto nel vocabolario delle Nazioni Unite e diventerà una categoria fondamentale nei processi internazionali per i crimini contro l’umanità. La nascita di questa categoria ha avuto riflessi positivi. I movimenti femministi che hanno combattuto a nome delle vittime di stupri e abusi sessuali – fino a quel momento non considerate degne di ascolto e di rispetto – hanno portato a un radicale cambiamento nelle legislazioni dei paesi occidentali. Tali fatti criminosi, infatti, da delitti contro la pubblica morale incentrati sulla figura del colpevole sono divenuti, e sono stati riconosciuti, come delitti contro la persona: cioè la vittima, che ha trovato infine ascolto e riconoscimento.


La causa delle vittime ha il merito di apparire sempre giusta e di fare appello a politici di qualsiasi campo, semplificando scelte e riflessioni. Militare infatti in nome di una memoria vittimaria – scrive Guillaume Erner (La societé des victimes) – “permette di ritrovare una identità, di ridare senso alla propria esistenza”. Proprio per questo motivo il titolo di vittima è diventato ambito, molto più che quello di eroe, e con manipolazioni più o meno abili è trasmigrato da un gruppo a un altro, tanto che è passato dagli ebrei perseguitati ai palestinesi senza terra. Questo processo ha avuto inizio con la Guerra del Kippur nel 1973, ma si è poi stabilmente attestato, saldandosi, come vediamo oggi, a un mai morto antisemitismo. Si tratta quindi di una rivoluzione – quella delle vittime – che ha conosciuto fin troppo successo, e si può convenire con Pascal Bruckner che l’ha definita “la versione dolorista del privilegio”. Questo slittamento della figura della vittima dagli ebrei ai palestinesi si sta estendendo anche alle definizioni di reato apprestate da Lemkin e Lauterpacht in difesa dalle eventuali future persecuzioni, oggi addebitate agli israeliani che combattono a Gaza: genocidio e crimini contro l’umanità.


A voler fare dell’ironia, potremmo concludere che le elaborazioni di parte ebraica delle conseguenze della Shoah hanno goduto di una fortuna addirittura eccessiva. E i cristiani? E la Chiesa cattolica? Come scrive in un lucido saggio Anna Foa, negli anni successivi alla guerra l’istituzione ecclesiastica non fa nulla per cambiare l’insegnamento del disprezzo, non prende in esame le parole critiche che già negli anni fra le due guerre alcuni intellettuali cattolici come Jacques Maritain avevano rivolto al modo in cui la tradizione cattolica guardava agli ebrei. Questo silenzio fu mantenuto anche di fronte a un grave avvenimento, verificatosi a Kielce, in Polonia, nel 1946, quando 42 ebrei furono massacrati per un’accusa di omicidio rituale. Nel paese gli ebrei erano visti come sostenitori dei comunisti, e quindi i vescovi polacchi non condannarono l’aggressione, così come Pio XII. E in difesa del Pontefice, accusato di non avere condannato il nazismo per la Shoah, ci si è poi limitati a contrapporre il numero elevato di ebrei salvati negli istituti religiosi.


Ma da parte cattolica non iniziò alcuna elaborazione della memoria di ciò che era accaduto. Chi ha indotto a cambiare questa situazione, ottenendo con pazienza e coraggio quei cambiamenti radicali che portarono alla dichiarazione Nostra aetate del concilio, è stato uno storico ebreo francese, Jules Isaac, grazie al suo libro Gesù e Israele, uscito nel 1948 ma scritto mentre l’autore viveva nascosto e gran parte della sua famiglia, che non era riuscita a sfuggire a una retata, veniva soppressa ad Auschwitz. Isaac dal punto di vista intellettuale è un innovatore. Affrontando le questioni che hanno giustificato per secoli l’immagine negativa degli ebrei nella cultura cristiana – quello che lui chiama appunto “l’insegnamento del disprezzo” – esclusivamente dal punto di vista storico, e non teologico, come era abituale, Isaac riuscì a smontare il cumulo di accuse tradizionali. Partendo soprattutto da quella più importante: non è il popolo ebraico il colpevole della crocefissione, ma solo l’élite sacerdotale del sinedrio. E proprio questo punto di vista storico risulterà fondamentale per controbattere le accuse: “Non permetterò di farmi trascinare su un terreno dogmatico che non è il mio, che non sto eludendo ma che mi rifiuto di affrontare, e che non è assolutamente necessario affrontare nel presente dibattito”, scrive.


Dobbiamo quindi giungere a questa conclusione: anche il ripensamento della Chiesa per la lunga ostilità dimostrata nei confronti del popolo ebraico, che certo aveva creato il contesto favorevole per l’affermarsi della persecuzione razziale, è stata suggerito e sollecitato da un ebreo. Anche qui l’elaborazione autonoma della tragedia è stata insufficiente. E oggi siamo costretti ad ammettere che si sta tornando indietro, che la svolta teologica segnata dalla dichiarazione conciliare – proprio quella che ha cambiato radicalmente il rapporto fra ebrei e cristiani, suggellata poi dalle visite di tre Papi al Tempio Maggiore di Roma – non è stata del tutto compresa e condivisa dal mondo cattolico se, in questi ultimi tempi, sono riemerse non poche affermazioni antiebraiche insieme a segnali di gravi passi indietro nel dialogo fra le due religioni. Questa pur breve ricostruzione dell’elaborazione ebraica della Shoà ci permette di vedere come questa sia stata non solo molto più ampia e approfondita di quella promossa dalla cultura occidentale, ma soprattutto si sia concentrata su interventi volti a impedire il ripetersi di quei crimini, in ambito giuridico e sul piano culturale. A parte la “scoperta” delle vittime con il processo di Eichmann – voluta con determinazione dal primo ministro israeliano Ben Gurion, questo nemmeno va dimenticato – le altre battaglie culturali sono state opera di singoli protagonisti, personalmente coinvolti nella Shoah, che hanno saputo prendere la parola a nome dell’intero popolo ferito.


Il lavoro di ricostruzione della memoria e l’accertamento delle responsabilità della Shoah da parte non ebraica si sono svolti invece, come abbiamo visto, quasi solamente sul terreno dell’analisi storica, e si sono concentrati sull’individuazione dei colpevoli. Con la convinzione implicita che, una volta accertati i responsabili e mostrate le loro ideologie, si sarebbe potuto garantire che nel futuro eventi simili non si sarebbero ripetuti. L’unico sviluppo acquisito dal punto di vista teorico – oltre la criminalizzazione del nazismo – è stata la denuncia del concetto di razza, al quale è stata negata ogni pretesa scientifica.Certamente il lavoro storico di Isaac e i testi conciliari che l’hanno in gran parte recepito sono stati fondamentali, ma non bastano. Non solo perché, in un certo senso, sono arrivati alla cultura cattolica dall’esterno, e accolti con non poche difficoltà, come rivela la ricostruzione del dibattito anteriore e posteriore al concilio, ma anche perché in fondo eludono la questione che sta al cuore del problema, cioè il mistero della presenza ebraica, a cui si riferiscono le parole attribuite a Gesù nel dialogo con la samaritana dal vangelo di Giovanni (4,22): “La salvezza viene dai giudei”. Parole interpretate come riferite all’origine di Gesù, ma che alludono anche, secondo alcuni studiosi, a un ruolo successivo del popolo ebraico. Come ha scritto il teologo Charles Journet, “la salvezza deve venire dagli ebrei in virtù della loro ribellione e di ciò che ne consegue”, ma già lo scrittore Léon Bloy si rifà a san Paolo per sottolineare che Israele costituisce un “mistero” e non è possibile declassarlo a semplice fatto storico. Secondo il teologo austriaco di origine ebraica Johannes Oesterreicher, dopo il concilio sono stati però pochi e modesti gli sviluppi dell’insegnamento della chiesa sul nodo dell’esistenza ebraica, ed è quindi necessario continuare.


Oggi molti segnali ci dicono che questa elaborazione non è stata sufficiente. E forse è opportuno riprendere la riflessione da capo, cercando di riempire i vuoti e di fare passi ulteriori nella comprensione di ciò che è accaduto e, in un certo senso, continua ad accadere.

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