Il paradosso
Bancarotta scongiurata: così Al Sisi ringrazia gli Emirati e il conflitto a Gaza
Prima del 7 ottobre, il Fondo monetario internazionale e le monarchie del Golfo attendevano di aiutare l'Egitto per salvalo dal fallimento. Poi è iniziata la guerra e qualcosa è cambiato: Abu Dhabi ha versato 35 miliardi di dollari al Cairo per un lembo di terra grande tre volte Manhattan
Il paradosso è che senza la guerra a Gaza, il salvataggio dell’Egitto dalla bancarotta sarebbe stato impresa ardua. Prima del 7 ottobre, Fondo monetario internazionale (Fmi) e monarchie del Golfo hanno atteso che l’uno o le altre facessero la prima mossa in attesa di intervenire in aiuto di Abdel Fattah al Sisi. Per un anno e oltre, tutti erano terrorizzati dalla prospettiva del fallimento di un gigante da 110 milioni di abitanti, ma allo stesso tempo si ostinavano a chiedere al presidente-generale l’impensabile: ridimensionare il peso dei militari nell’economia. Poi è iniziata la guerra e qualcosa è cambiato. La settimana scorsa, gli Emirati Arabi Uniti hanno annunciato a sorpresa l’investimento diretto più grande nella storia dell’Egitto, 35 miliardi di dollari cash, da versare direttamente nelle casse della Banca centrale del Cairo per acquistare un lembo di terra grande tre volte Manhattan e chiamato Ras el Hekma. È una località balneare affacciata sul Mediterraneo, a 350 chilometri a nord-ovest del Cairo, che gli emiratini vogliono trasformare in un’eccellenza mondiale del turismo. “La portata dell’investimento è molto superiore a quanto ci aspettassimo e la tempistica molto più rapida”, ha commentato Farouk Soussa di Goldman Sachs.
L’acquisizione di Ras el Hekma non è solamente un investimento monstre, è il salvataggio di una nazione sull’orlo di una crisi senza precedenti, un’operazione che dà respiro alle riserve di dollari in esaurimento con una doppia tranche, di cui la prima è stata già versata. Il denaro parte da ADQ, il fondo di investimenti emiratino che ha già concluso diversi affari in Egitto, l’ultima volta a gennaio scorso, con un esborso di quasi un miliardo di dollari nel settore degli hotel di lusso. Il fondo guiderà ora un consorzio di compagnie egiziane su cui ancora circola qualche mistero – si fa il nome, fra gli altri, di Mahmoud el Gamal, della famiglia Mubarak. Sulla carta si attendono ricavi per 150 miliardi di dollari, di cui all’Egitto dovrebbe spettare il 35 per cento.
I terreni acquistati dagli Emirati per edificare strutture futuristiche appartengono allo stato e alle Forze armate, che saranno i primi a beneficiare dell’operazione. Eppure, prima della guerra a Gaza, i paesi del Golfo avevano avvisato Sisi: il monopolio dell’esercito di grandi fette dell’economia egiziana è un problema. “Un tempo concedevamo depositi e prestiti senza condizioni. Ora stiamo cambiando. Vogliamo vedere le riforme. Noi tassiamo i nostri cittadini, ci aspettiamo che anche gli altri facciano lo stesso”, aveva detto al Forum di Davos dell’anno scorso Mohammed al Jadaan, ministro dell’Economia saudita. Secondo Timothy E. Kaldas, vicedirettore del Tahrir Institute for Middle East Policy, le premure del Golfo non vanno esagerate: “Certo, le monarchie vogliono riforme per stabilizzare l’Egitto e ridurre i costi di salvataggio, ma sono interessate a ridurre il peso dell’esercito solamente perché i contratti sottoscritti da stato e Forze armate costringono Sisi a prendere in prestito denaro in modo insostenibile, accelerando l’urgenza di altri finanziamenti”, spiega l’esperto.
La guerra a Gaza ha ridimensionato gli scrupoli del Golfo e la tesi del “too big to fail” applicata all’Egitto, già prevalente prima del 7 ottobre, è diventata ancor più vera oggi. Pensare al fallimento dell’economia di uno dei principali mediatori fra Hamas e Israele è impensabile per gli Stati Uniti, che attendevano con ansia la conclusione dell’accordo con gli Emirati su Ras el Hekma. Per Ziad Daoud, capo analista di Bloomberg per i mercati emergenti, la principale conseguenza dell’accordo, oltre a una nuova svalutazione della lira, la quarta in due anni, sarà quella di “sbloccare nuovi fondi da parte del Fmi”. “Siamo molto vicini a un accordo per il prestito all’Egitto”, ha confermato a inizio febbraio la presidente del Fmi, Kristalina Georgieva, sebbene il paese sia secondo solamente all’Argentina per debiti contratti con il Fondo. Ora però l’organizzazione di Washington è pronta a passare da un prestito da 3 miliardi già accordato, a uno da 10 miliardi, esattamente quelli che il Cairo chiedeva.
L’urgenza di andare incontro alle esigenze di Sisi si è accentuata dopo che gli attacchi degli houthi hanno causato perdite per circa 400 milioni di dollari al mese all’Egitto, che invece puntava molto sul raddoppio del Canale di Suez inaugurato nel 2021. “Un investimento che in sé non sarebbe stato così inutile, ma che di certo non era urgente – dice Kaldas – e che ha aggravato la crisi valutaria del paese con ricavi inferiori alle attese”. D’altra parte, Sisi ha sempre nutrito una fascinazione particolare per i mega investimenti avveniristici. “La costruzione della Nuova capitale amministrativa vicino al Cairo (anche quella realizzata con il contributo degli Emirati, ndr) ha aumentato il debito pubblico, portando lo stato egiziano quasi alla bancarotta. Oggi è un fardello pesante per il paese”. Per molti osservatori, il rischio è che mettere una toppa oggi non equivalga a risolvere il problema di lungo periodo, quello legato alle riforme. Così, mentre il 60 per cento della popolazione vive vicino o al di sotto della soglia di povertà, per uscire dalla crisi causata da mega progetti iper-costosi, si sceglie di spendere denaro in altri progetti, ancora più costosi.
Isteria migratoria