LO SPECIALE sulla guerra

La voce è l'unica arma che gli ucraini non devono chiedere agli alleati

Paola Peduzzi

Voi ne fate una questione di soldi, per noi è la possibilità di vivere. Il grido di Kyiv rimbomba più forte del vuoto lasciato dai russi

Ogni centimetro del territorio ucraino sanguina.  Le ferite sono ovunque, si aprono, si richiudono, si riaprono sotto l’attacco indefesso dell’esercito di Vladimir Putin che da settecentotrenta giorni inganna, manipola, terrorizza e ammazza. Gli ucraini scelgono di ricucire quel che possono e di lasciare le ferite dove servono, perché il dovere di essere testimoni, di ricordare, ha dato una curvatura nuova al loro spirito, ognuno ha preso un impegno nei confronti della propria terra e del proprio popolo. Per questo si alterna la casa ricostruita con quella distrutta: per darsi un futuro senza dimenticare cosa c’era prima che la furia russa s’abbattesse su ogni angolo di vita ucraina. I cimiteri si allargano per ospitare “l’ala degli eroi”, i funerali scandiscono le giornate, ogni giorno, tutti i giorni, più si va verso l’est e verso il sud prede della Russia, più la devastazione si fa macerie e rottami.  

 

Spesso il sangue non si vede, gli ucraini lo lavano via rapidi, in questa sofferta convivenza della  ricostruzione con la memoria, ma il sangue si sente. E’ in tutte le voci, in tutte le conversazioni, in tutti i film e i libri che hanno iniziato a raccontare cosa è accaduto dopo il 24 febbraio del 2022, quando l’inerzia occidentale – che è stata la strategia, si fa per dire, prevalente dall’annessione della Crimea nel 2014, dieci anni fa – ha mostrato la sua tragica fallacia. La voce della guerra è straziante e potente ed è l’unica arma che gli ucraini non devono elemosinare all’estero per continuare a difendersi. E’ la voce che ripete, ferma: per voi occidentali è una questione di soldi, di scelte industriali, di rivalità politiche, per noi è la possibilità di vivere. Non di sopravvivere: di vivere. E’ una sottigliezza, ma è tutto. 

 

Ritirando il premio per il miglior documentario ai Bafta, Mstyslav Chernov, regista di “20 giorni a Mariupol”, ha detto, ringraziando: ascoltate queste voci. Non lasciate che abbiano il sopravvento non tanto e non solo la propaganda russa, ma nemmeno le voci di chi ha dimenticato lo stupore tragico degli ucraini quando è iniziata l’invasione su grande scala di Putin, due anni fa. “Perché ci attaccano?”, è la domanda che rimbomba dentro a “20 giorni a Mariupol”, e si fa presto oggi a dire che si sapeva che ci sarebbe stato l’attacco, che il presidente Volodymyr Zelensky aveva minimizzato ma lo sapeva pure lui, che il piano di Putin era chiaro da tempo. Si fa presto, e si sbaglia: le voci di Mariupol in quei primi giorni di invasione ci urlano un enorme “perché?” al quale l’unica risposta è quella che siamo refrattari a dare: perché Putin vuole annientare con il terrore un’identità di cui non riconosce l’esistenza – ti ammazzo perché sei ucraino. Un’altra ragione non c’è. Gli aerei russi che volano su Mariupol, nei cieli grigi di un febbraio ucraino, continuano a essere ancora oggi un gesto efferato e ingiustificato: torno a casa?, resto per strada?, aspetto mio figlio all’autobus?, scappo? e dove? Lo stesso Chernov, assieme agli altri giornalisti con cui è rimasto a Mariupol testimoniando i primi 20 giorni dell’assalto russo, alla prima signora che incontra e che non sa cosa fare, che piange per strada con il cane al guinzaglio, dice: vai a casa, lì sei al sicuro. La sua voce è rassicurante, ancora per poco: non lo sarà più.

 

Di sicuro, in Ucraina, non c’è più niente da due anni. La linea del fronte, lunga mille chilometri di ingiustificata violenza, non lo è, ma pure questo fatto, noto e banale, ha perso la sua connotazione più importante: non è normale. Non è normale che un paese pacifico e innocuo abbia un fronte militare aperto da dieci anni perché la Russia ha deciso che il Donbas deve appartenere alla sua federazione. Senza capirci nulla per molto tempo – un’ignoranza colpevole: non abbiamo voluto capire Putin, ma soprattutto non abbiamo voluto capire gli ucraini – abbiamo creduto al fatto che parlare russo, votare un partito filorusso volesse dire: vivere sotto il controllo di Mosca. L’equivoco ha permesso la creazione di questo fronte, mentre si usavano tutte le cautele linguistiche possibili per non dire che i russi avevano invaso un paese straniero: “i separatisti”, “gli omini verdi”, “le forze armate contro il governo centrale di Kyiv”, ve li ricordate? Erano i russi, sempre i russi, con i loro collaboratori in Ucraina. Ancora una volta abbiamo tappato le orecchie e non abbiamo sentito la voce di chi lì ci abita da generazioni, di chi ha visto il sangue e l’ha pulito e l’ha commemorato e che ha detto: la mia patria è l’Ucraina. Le voci “al fronte” e al di là sono rimaste inascoltate. Altrimenti non si spiega com’è possibile che davvero ci sia qualcuno che, dopo dieci anni, sostiene che la tregua passa per forza da una concessione territoriale. Tracciamo confini così, sulla base delle ambizioni di un regime terrorista, mentre le testimonianze dall’occupazione, per chi riesce a tornare e a parlare, ci raccontano che il compromesso, visto da vicino, significa rinunciare alla vita ucraina. Non è una questione di lingua o di passaporto, non soltanto almeno: è che devi cancellarti come ucraino, se vuoi vivere.

 

In “Zona d’interesse” di Martin Amis, Szmul, che è ebreo e deve aiutare i nazisti ad Auschwitz a eliminare i corpi degli ebrei uccisi, dice: “Un giorno qualcuno verrà nel ghetto o nel lager e renderà conto dell’assiduità quasi farsesca dell’odio tedesco. E vorrei iniziare chiedendo, perché siamo stati arruolati, nella spinta verso la nostra stessa distruzione? Ecco, vedete. Gli ebrei possono solo prolungare la loro vita aiutando il nemico alla vittoria”. Rinunciare a sé stessi, alla propria identità, mettersi al servizio di chi vuole distruggerla, per sopravvivere. E’ particolarmente sciagurato il fatto che i nazionalisti e sovranisti d’occidente, che in nome della loro patria e della loro tradizione farebbero tutto, riconoscano il patriottismo russo e neghino quello ucraino.

 

“Intercepted” è un film della regista e fotografa Oksana Karpovych, che è stato presentato a Berlino questa settimana. Karpovych, poco più che trentenne che vive tra l’Ucraina e il Canada, dice sempre a chi la intervista: mi viene spesso da piangere mentre parlo, ma non farci caso, passa subito. Ha ascoltato ore e ore delle telefonate dei soldati russi che hanno partecipato all’invasione dell’Ucraina con le loro famiglie a casa: i servizi ucraini le avevano intercettate, molte erano state pubblicate, ricordiamo il soldato che ruba la biancheria intima da un cassetto per portarla alla fidanzata o un’altra fidanzata che dice al suo innamorato che se deve stuprare delle ucraine, va bene, ma che usi il preservativo. Karpovych ha preso queste voci – non tutte, ha dovuto selezionare, per questo le viene da piangere, perché le ha ascoltate tutte, molte volte – e le ha montate sulle immagini dell’Ucraina in macerie a causa degli attacchi russi. Le immagini le conosciamo, le abbiamo viste, sono i crateri dei missili, le case divelte, i cadaveri per le strade; anche le voci dei soldati russi le conosciamo, ne abbiamo ascoltate molte. Insieme risvegliano lo sconvolgimento dell’inizio, quello che abbiamo dimenticato e che abbiamo smesso di ascoltare.

 

Il soldato e la mamma:
“Hai visto delle basi della Nato lì?”
“No”
“Non mi dire bugie, le loro basi sono dappertutto, lo dicono in tv”
“Non guardare la tv mamma, non dicono la verità”

“Cosa vuol dire che non dicono la verità? E’ la verità invece, è il motivo per cui sei stato spedito lì, per proteggerci dalla Nato. Siete i nostri eroi, dillo ai tuoi amici”
“Non ho più amici mamma, sono tutti morti”
“Sono fiera di te e dei tuoi amici”.

 

Un altro soldato alla mamma:
“Mamma, mi piace un sacco torturare! Posso raccontarti le torture che ho imparato a fare e cui ho partecipato?” (segue racconto)
“Figlio mio, va tutto bene, se potessi venire da te, mi divertirei anche io a torturare”.
Intanto scorrono le immagini di case saccheggiate, di scuole vuote (ne sono state distrutte milletrecento, secondo i dati dell’Onu: oggi un terzo degli studenti in Ucraina va fisicamente in classe, gli altri se possono si collegano da casa. Un’insegnante mi ha detto: “Si può insegnare anche così, figurati, non è questo il punto. E’ che mi manca la voce dei ragazzi, il trillo della vita di classe, oggi credo che non sgriderei più nessuno pure se chiacchierassero tutto il tempo”), di spazi abbandonati, la vita ucraina che se n’è andata. 

 

L’Organizzazione internazionale per le migrazioni dice che 14,6 milioni di ucraini, il 40 per cento della popolazione totale, ha bisogno di assistenza per sopravvivere; 3,7 milioni di ucraini sono sfollati interni, cioè hanno lasciato le loro case e vivono da qualche altra parte del paese; 6,5 milioni di ucraini sono rifugiati all’estero; all’inizio erano molti di più, 4,5 milioni sono rientrati nelle loro case (il numero comprende anche gli sfollati interni che sono ritornati nelle città da cui erano fuggiti). I numeri ufficiali dei morti non ci sono. 

 

Il vuoto, in Ucraina, è questo: la vita che se n’è andata. Ma poi c’è la voce degli ucraini che riempie la desolazione, che mantiene intatto lo sconvolgimento di fronte all’ingiustizia criminale di Putin, che porta testimonianze, racconti, lacrime, rinascita, rabbia e speranza insieme, perché convivere con la guerra non è abituarsi, è combattere i russi e combattere la rassegnazione degli altri. E’ una voce ferma, nitida, schietta, non piagnucolosa. Tiene svegli la notte, certo, ma ha ragione: non ascoltarla è un altro, imperdonabile delitto. 

 

Lo speciale del Foglio a due anni dall'invasione russa

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi